Francesco e Chiara, innamorati di Cristo
Un profilo dei due santi assisiati, i passi di una spiritualità inedita e una povertà che libera: il Vangelo vissuto in una dirompente quotidianità
Anna Maria Canopi
Era l’anno 1181 o 1182 quando, in quel piccolo angolo della terra che è l’Umbria, non tanto “venne alla luce”, ma, come scrisse il Sommo Poeta, «nacque al mondo un sole» (Par XI,50): Francesco. Appartenente a una famiglia benestante, anzi, ricca, crebbe tra gli agi e nella spensieratezza, diventando «leggero e vanitoso» (Fonti Francescane, 317). Già correva veloce sulle vie della vanagloria e della mondanità, quando il Signore posò su di lui il suo sguardo, per farne - come già di Paolo - uno strumento eletto del suo disegno di salvezza universale. Poco più che ventenne, due dolorose esperienze - la prigionia dopo la battaglia di Collestrada e una grave malattia - segnarono l’inizio di un cambiamento interiore: come nota il suo biografo, Francesco «divenne più compassionevole» (FF 585). La sua vita era ormai “diversa”. E questo si manifestò in modo chiaro nel bacio di pace che, vincendo la sua naturale ripugnanza, scambiò con un lebbroso.
Giunse, infine, per Francesco l’ora della divina chiamata. Entrato nella chiesetta di San Damiano, per tre volte il Crocifisso gli disse: «Va’, Francesco, e ripara la mia Chiesa in rovina». Questa “parola”, da lui intesa dapprima in senso strettamente letterale, si svelò poi al suo cuore nella sua dimensione più ampia, profonda, spirituale: non tanto le mura di una chiesa erano da riparare, quanto la Chiesa era da rinnovare, riportandola al suo originario slancio evangelico.
Da allora tutto l’ardore cavalleresco di Francesco si trasforma in appassionato amore a Cristo. Con un gesto di radicalità estrema non esita a spogliarsi delle sue stesse vesti, dichiarando così la sua definitiva rottura con il mondo, per seguire povero Cristo povero.
Chiamato dalla voce divina a rinnovare la Chiesa, si ritira in solitudine e preghiera nella località chiamata Porziuncola, consapevole che ogni autentico rinnovamento inizia in umiltà, dalla conversione personale. Un giorno, entrando in chiesa, sente leggere il brano del Vangelo sull’invio in missione degli apostoli. E subito, «esultante di Spirito Santo, esclamò: “Questo voglio, questo chiedo, questo bramo di fare con tutto il cuore”» (FF 356). E questo fece senza indugio, con altri compagni che si unirono a lui, attratti dallo stesso ideale. La predicazione fu come un robusto tessuto, in cui vita e parola si intrecciarono così fittamente da essere una cosa sola: una parola vissuta, una vita eloquente, nella più grande semplicità.
Per entrare almeno un poco nello spirito di san Francesco, cerchiamo allora di evidenziare alcune “parole-chiave” della sua predicazione e di vederle tradotte nella sua vita, come esempio per la nostra vita.
Tutti conosciamo san Francesco d’Assisi come il santo della perfetta letizia; eppure, leggendo i suoi scritti emerge in tutta evidenza la parola penitenza. Il suo Testamento si apre così: «Il Signore dette a me, frate Francesco, d’incominciare a fare penitenza» (FF 110). Bello quel “dette a me”: l’esigenza di fare penitenza, di convertirsi, è considerato un dono di Dio. Perché - ci insegna san Francesco - libera il cuore da pesanti catene e lo apre alla libertà vera.
Per questo l’invito alla penitenza diventa il centro della predicazione di Francesco e dei suoi frati: «Da allora - si legge nella Vita prima di Tommaso da Celano - con grande fervore ed esultanza, egli cominciò a predicare la penitenza, edificando tutti con la semplicità della sua parola e la magnificenza del suo cuore» (FF 358). E rivolgendosi ai suoi frati, così li esortava: «Andiamo, dunque, per il mondo, esortando tutti, con l’esempio più che con le parole, a fare penitenza dei loro peccati e a ricordare i comandamenti di Dio» (FF 1440).
Significativamente troviamo la parola penitenza al compimento dell’esistenza terrena di Francesco: «Compiendosi i quarantacinque anni della sua vita, e i vent’anni della sua perfetta penitenza […], migrò verso il Signore Gesù Cristo» (FF 1824).
Subito sorge una domanda: come si può conciliare la “perfetta penitenza” con la “perfetta letizia”? Che cos’è, dunque, la penitenza? Dando uno sguardo alla vita di san Francesco - e lo stesso si può dire di san Benedetto e di tanti altri santi - “fare penitenza” altro non è che rispondere all’invito di Gesù: «Convertitevi, perché il regno di Dio è vicino» (Mt 3,1); è un cambiare orientamento della vita passando dallo sguardo centrato sull’io allo sguardo tutto rivolto a Dio; è trovare un tesoro e null’altro desiderare se non quello, a qualsiasi prezzo.
In concreto, per san Francesco convertirsi ha significato da ricco che era farsi povero per amore di Gesù. L’amore è la chiave della conversione e della penitenza. Per questo non rende la vita triste e chiusa, ma libera e dilatata.
Conversione e povertà sono il terreno buono dove è caduto quel piccolo seme che era Francesco; morendo a se stesso, ha prodotto il cento - e anche il mille - per uno. Conversione e povertà sono stati - e continuano a essere - il terreno buono, dove affonda profondamente le radici quell’albero di san Francesco, che appare ai nostri occhi frondoso e carico di buoni frutti. Intendo dire l’Ordine dei Frati Minori. Si nasconde in questo nome tutta la spiritualità di san Francesco, il suo volto interiore. E anche il suo silenzioso insegnamento. Frati: riconoscere negli altri dei fratelli, figli dell’unico Padre, vivere in concreto la fraternità, estesa al cosmo intero! Minori: riconoscersi piccoli davanti a Dio e davanti agli altri; non avere pensieri di superbia, non giudicare nessuno, anzi, inchinarsi davanti a tutti come Gesù nel gesto della lavanda dei piedi. Come è bella la testimonianza che dà il beato Tommaso da Celano su come si è costituita la famiglia francescana: «E realmente erano “minori”; “sottomessi a tutti”, ricercavano l’ultimo posto e gli uffici cui fosse legata qualche umiliazione, per gettare così le solide fondamenta della vera umiltà, sulla quale si potesse svolgere l’edificio spirituale di tutte le virtù. E davvero su questa solida base edificarono, splendida, la costruzione della carità».
Chiamando “Minori” i suoi frati, Francesco indica la via della piena conformazione a Cristo, venuto come piccolo e come povero, come mendicante di amore. Essere “frati minori” è tenere sempre uniti nella vita la povertà della Greppia, la nudità della Croce, la comunione del Cenacolo.
Frutto sostanziale che matura su questo albero è l’amore alla Chiesa, dove per le mani del sacerdote, nell’Eucaristia, Gesù Cristo si fa a noi realmente presente come dolcissimo Pane di vita: «Ogni giorno Egli viene a noi in apparenza umile; ogni giorno discende dal seno del Padre sull’altare nelle mani del sacerdote. E come ai santi apostoli si mostrò nella vera carne, così ora si mostra a noi nel pane consacrato […] E in tal maniera il Signore è sempre presente» (FF 144-145). È il Dio-con-noi che ci rende “noi” in un mondo diviso e malato di individualismo. Questa santa Chiesa è viva - e sempre da rinnovare - in ciascuno di noi, secondo la bellissima esortazione di san Francesco: «E sempre costruiamo in noi una casa e una dimora permanente a Lui, che è il Signore Dio Onnipotente, Padre e Figlio e Spirito Santo, e che dice: Vigilate e pregate in ogni tempo» (FF 61).
Frutto dolcissimo è l’amore alla preghiera: preghiera di rendimento di grazie e di fiducioso abbandono al “Padre Nostro”, preghiera di umile supplica al Figlio nostro Redentore, preghiera di affidamento allo Spirito d’amore; preghiera di filiale devozione a Maria Santissima e di “fratelli minori” a tutti i Santi (cfr FF 63-67). Preghiera di un cuore puro che dalla creazione si innalza al Creatore e dal Creatore si china con umile amore su tutte le creature nelle quali scorge un riflesso dell’infinita bontà di Dio. Preghiera che deve accompagnare il cammino quotidiano in tutti i suoi momenti, così che non si spenga «lo spirito della santa orazione e devozione, al quale devono servire tutte le altre cose temporali» (FF 88).
Da questo desiderio di vivere la preghiera continua scaturiscono a grappolo tutti gli altri frutti che santificano la vita: frutti di umiltà e mitezza, di bontà e benevolenza, di gioia e fraternità. Frutti delicatissimi, da custodire con cura. San Francesco esorta a questo i suoi frati e noi facciamo nostre le sue esortazioni: «E tutti si guardino dal calunniare alcuno, ed evitino le dispute di parole, anzi cerchino di conservare il silenzio […] E non litighino, ma procurino di rispondere con umiltà […] E mostrino con le opere l’amore che hanno tra di loro […] E non mormorino […] E siano modesti, mostrando ogni mansuetudine verso tutti gli uomini» (FF 36-37).
Un grappolo veramente prezioso! Un frutto dal sapore genuino del Vangelo; un frutto che diffonde attorno a sé pace e bene. Scrive Francesco nel suo Testamento: «Il Signore mi rivelò che dicessimo questo saluto: “Il Signore ti dia pace”» (FF 121). Un saluto che, per non essere solo vuoto suono, deve scaturire da una vita ordinata alla pace, una vita conforme a Gesù, nostra Pace. «Francesco - si legge nella Vita seconda - voleva che i suoi figli vivessero in pace con tutti e verso tutti senza eccezione si mostrassero piccoli. Se sarete figli della pace, guadagnerete al Signore clero e popolo. E concludeva: supplite i vari difetti, e quando avrete fatto questo, siate più umili ancora» (FF 730). Così si intesse la pace.
Per tutti questi frutti evangelici, san Francesco è stato - e continua ad essere - un immenso dono di Dio alla Chiesa e all’umanità: un dono di “poesia”, per riprendere un’espressione del giovane Giovanni Battista Montini, che di lui diceva: «È un poeta, non solo nel senso che sente e canta la poesia, ma soprattutto che vive poeticamente. E vivere poeticamente significa avere per molla motrice la rapida spinta dell’amore». San Francesco è «un amante, nel vero senso, nel più alto senso della parola. Donde l’immediatezza nel dare, nel fare, nel fidarsi…».
Molto ancora si dovrebbe dire per tratteggiare almeno le linee fondamentali del volto di questo Santo: le sue nozze con Madonna Povertà, il suo ardore missionario, il suo amore del creato quale splendore di Dio, le stigmate, i “luoghi” francescani… Molto si dovrebbe ancora aggiungere, ma non si può tacere un ultimo “frutto”, oseremmo dire il più bello, il più segreto, il più caro al cuore di Francesco: la sua «pianticella» Chiara e l’Ordine delle Clarisse o Sorelle Povere di san Damiano. Un frutto di grazia, un dono dello Spirito. Un legame particolarissimo legò questi due santi che testimoniano la bellezza e la fecondità dell’amicizia spirituale. Come non ricordare san Benedetto e santa Scolastica e la loro “gara d’amore” nell’incessante anelito alle realtà del cielo che squarcia le tenebre notturne?
Chi era, dunque, Chiara d’Assisi? Appartenente a una ricca famiglia della ridente cittadina umbra, fin dal grembo materno fu segnata da presagi di luce divina. Per questo ricevette al battesimo il nome di Chiara: nome di bella speranza, che brillò in lei sempre di più, andando di luce in luce. A soli due anni dalla sua nascita al cielo, nel 1255, papa Alessandro IV non esitò a canonizzarla scrivendo di lei: «Quanto è vivida la potenza di questa luce e quanto forte è il chiarore di questa fonte luminosa. Invero, questa luce si teneva chiusa nel nascondimento della vita claustrale e fuori irradiava bagliori luminosi; si raccoglieva in un angusto monastero, e fuori si spandeva quanto è vasto il mondo. Si custodiva dentro e si diffondeva fuori» (FF 3284).
Immersa in un ambiente sfarzoso, Chiara fu però educata secondo pietà. La madre, infatti, era profondamente religiosa e non lasciò mancare alla figlia, insieme a tutti i conforti per la vita corporale, il vero nutrimento spirituale, di cui la bambina avvertì subito la bontà. Fin da piccola, secondo la sua età, crebbe in virtù, in lei si formò un cuore compassionevole, uno spirito di preghiera; fu colma di una sapienza dall’alto, ricca di discernimento. Erano, all’inizio, scelte piccole, ma assai significative e commoventi, come aiutare i poveri di nascosto privandosi lei stessa di quello che le veniva dato, oppure contare le sue preghiere con i sassolini, formando piccole montagne di preghiera.
Con il passare degli anni, andò maturando in lei il vivo desiderio di consacrarsi al Signore: tra la gloria del mondo e la gloria di Dio scelse quest’ultima con libera volontà. Con sapienza tenne nascosto il suo santo proposito e seppe “ritardare” la scelta delle nozze terrene già stabilite per lei.
Con sapienza non si fidò di se stessa in una scelta così delicata e fondamentale. Avendo sentito parlare di Francesco, ormai “celebre” in Assisi per la “novità” della sua vita cristiana, volle incontrarlo. In lui vide incarnato quell’amore a Cristo che desiderava vivere. Alla sua guida si affidò accogliendo i suoi consigli con prontezza, senza esitazioni.
E venne il giorno della grande decisione. Era la domenica delle Palme, quando Chiara scelse di “convertire” (ecco, la parola cara a Francesco) la gioia del mondo nella “com-passione” di Cristo. Lasciati di nascosto casa e parenti, nella chiesa di Santa Maria della Porziuncola, per mano di Francesco si spogliò degli abiti secolari e dei suoi ornamenti femminili e rivestì un rozzo abito penitenziale; con il taglio dei capelli firmò, per così, dire il suo atto di rinunzia al mondo. Iniziava la vita nuova.
E non mancarono subito le prove: in tutti i modi i genitori tentarono di riportarla nel mondo. Invano. Benché giovanissima - aveva diciotto anni - Chiara non cedette alle lusinghe, non si spaventò per le violenze, ma si irrobustì nella sua scelta: «Ostacolata, non vacillò l’animo, non svigorì il suo fervore: anzi, ella tempra il suo spirito alla speranza, finché i parenti, si danno per vinti e si placano» (FF 3173).
Da allora, con altre giovani affascinate come lei dall’amore di Cristo, visse per quarant’anni in un convento presso la chiesa di San Damiano una vita umile e povera; rigorosamente separata dal mondo e silenziosa, una vita orante e abbandonata alla Divina Provvidenza, una vita di conversione e di servizio: una vita offerta in carità. Bisognerebbe far brillare ciascuno di questi termini mostrandone il significato attraverso quello scrigno di sapienza che sono gli scritti di santa Chiara. Scrive ad Agnese di Praga: «Poiché egli è splendore della gloria, candore della luce eterna e specchio senza macchia, guarda ogni giorno questo specchio, e in esso scruta continuamente il tuo volto, perché tu possa così adornarti tutta all’interno e all’esterno […] In questo specchio rifulgono la beata povertà, la santa umiltà e l’ineffabile carità» (FF 2903). E conclude la sua lettera con le toccanti parole: «Nella contemplazione di queste cose, ricordati di me, tua madre, sapendo che io ho scritto in modo indelebile il tuo ricordo sulle tavolette del mio cuore». Madre è ogni donna consacrata al Signore: madre universale sempre nelle doglie del parto di un’umanità in gestazione, sempre irradiando nel mondo un raggio di speranza, di generazione in generazione.
(testo inedito)