Etna, viaggio nel cuore della terra
Il grande vulcano ha seminato distruzione ma soprattutto vita. Qui tutto ha in lui il centro
di Alessandro Gandolfi
Lucifero, Belzebù e Astarot se ne stanno in silenzio sotto la grande tenda, in attesa di salire sul palco. A fianco della Chiesa Madre di Adrano si aggirano la Morte, l’Umanità e l’arcangelo Michele, pronti a dare vita all’ennesima rappresentazione allegorica di una guerra eterna: quella tra il bene e il male. Adrano è un paesone di 35mila abitanti a sud-ovest dell’Etna e ogni mattina di Pasqua si rinnova la tradizione della Diavolata: attori rigorosamente locali portano in scena, su un palco costruito davanti alla chiesa, una storia rivisitata alla fine del Settecento da don Anselmo Laudani. Gli elementi pagani e quelli cristiani si fondono insieme in un rituale che qui, alle pendici del vulcano attivo più alto di tutta la placca euroasiatica, con una scenografia ricca di fiamme, fumo e lava rossa, assume un significato ancora più evidente: l’Etna è l’inferno e Lucifero vive nei suoi crateri.
Inferno, l’Etna, lo è diventato a partire dal terzo secolo, quando si cominciò a pensare seriamente che dal vulcano, poi definito Umbilicus Inferni, uscissero davvero diavoli e demoni (ritenuti allora i veri responsabili di eruzioni e terremoti). In precedenza, con i Romani questi diavoli erano i giganti; con i greci i ciclopi, i fabbri divini che nelle officine sotterranee del vulcano – il Tartaro, l’ingresso al regno dei morti – forgiavano le saette per Zeus e le armi per il dio del fuoco, Efesto, e con il loro martellare sulle incudini facevano brontolare la montagna. Ma più che paura il “Mongibello” ha sempre ispirato fiducia: l’Etna sputafuoco – patrimonio Unesco dal 2013 – è soprattutto un gigante buono al centro del Mediterraneo che attira l’uomo da almeno sette millenni.
Fermare le devastanti colate non è mai stato facile e un tempo ci si provava con le reliquie dei santi. La più celebre è quella di sant’Agata, una giovinetta di Catania che – rifiutandosi di abiurare la fede cristiana – fu sottoposta a un crudele martirio da parte del proconsole Quinziano: morì in cella il 5 febbraio del 251. L’anno seguente, stando alla tradizione, il suo velo (oggi conservato nella cattedrale di Catania) riuscì a bloccare la lava, e da allora è stato più volte portato in processione nel tentativo di evitare i danni delle colate.
A ben guardare però nel corso dei secoli l’Etna da queste parti ha portato più vita che morte. Le chiese, le case, i marciapiedi e i monumenti di Catania e dei villaggi etnei (come Adrano, l’antica Adranon greca) sono costruiti con blocchi di basalto nero che è ancora oggi estratto, lavorato e venduto in tutto il mondo. La fertile terra attorno al vulcano genera i frutti migliori: le olive nocellare, le mandorle, le nocciole, le mele, le albicocche, le castagne, i pistacchi di Bronte e le rinomate uve, sempre più richieste nel panorama vitivinicolo internazionale (l’Etna è la prima doc siciliana, creata oltre cinquant’anni fa).