E la città conquistò il Novecento
Da oggetto misterioso a terra promessa, incubo e utopia,la scoperta dello spazio urbano da parte dell’arte italiana
Aldo Galli, Senza titolo (1947), olio su tavola. Como, collezione privata.
Se questa è la posizione etica, quella estetica procede piuttosto per approssimazioni larghe, in assenza del formularsi di un vero e proprio genere pittorico. La città è villaggio espanso, o sogno antico, o ideale. In effetti nei secoli ultimi la grande tradizione artistica europea descrive architetture, certo, ma non matura una vera e propria “idea di città” come totalità e pienezza visiva. Troppo forte e incombente è il retaggio della Roma antica, l’Urbs per eccellenza risognata dal rinascimento, per poter concepire qualcosa che sia altro da uno scenario di parate e trionfi. Tanto tenace è d’altronde la tradizione del paesaggismo da non consentire di poter immaginare un’alternativa ai "paesaggi assoluti". Ciò vale in particolare per l’arte italiana, che giunge all’Ottocento in una sorta di attardamento estenuato e provinciale. La veduta urbana vi è teatro architettonico, cui i Canaletto hanno impresso le stimmate del gusto internazionale, oppure presepe: come altrimenti leggere la lunga teoria di opere dei Migliara, Bianchi, Caffi, Bisi, Borrani, Brancaccio, Inganni, in bilico tra echi di visione esatta e scena pittoresca? E come spiegare che città è, per loro, nient’altro che un’espansione del borgo rustico, al più punteggiata di sussulti bamboccianti, cui vestigia monumentali offrono talora sfondi suggestivi?
di Flaminio Gualdoni