Dove il vuoto risponde al silenzio
Non spazio di rivelazione ma terra desolata e transito di dolore: il deserto dei poeti è quello dell’anima
Roberto Mussapi
Il termine “deserto” indica una realtà, fisica e geografica, e diviene una condizione umana, uno stato dell’essere, una situazione, quasi sempre patologica, dell’anima.
Non importa che il deserto faccia parte del globo terracqueo come il mare e le colline e i fiumi, come le rive, i laghi, le montagne.
Né che sia stato la culla di quasi tutte le grandi religioni del mondo. È risaputo che nel deserto Israele configura la sua spiritualità di popolo eletto, ed è sempre lì che tutti i grandi condottieri religiosi vanno a cercare l’attesa illuminazione: Abramo, Mosè, Confucio, Cristo (che per chi scrive non è solo tale, ma Dio che si fa uomo), Buddha, Maometto. Insomma, secondo la felice sintesi di Victor Hugo, «il deserto è quel posto dove c’è Dio e non c’è l’uomo».
Certo nel deserto si consuma la miccia che accende grandi religioni, ma esse non sono riducibili a quell’arsura assoluta. Tu passi per il deserto, per il vuoto, come il profeta biblico o Cristo o Maometto, indispensabile passaggio nell’arsura e nel vuoto: ma passaggio.
Una tappa ardente, non la culla, di tante religioni. E non è culmine dell’assoluto svuotante, quando ognuna di quelle religioni ha il suo pieno nella rinascita dal deserto, come, in mare, nell’uscita dalla bonaccia, nel ritorno alla vita dall’incantesimo ammaliante e dal buio.
Il deserto si configura, simbolicamente, come spazio ove non c’è vita, ove non è presente l’acqua, ove gli uomini non costruiscono edifici, strade, sono soli nella sabbia dell’assoluto.
Molto più veridici delle considerazioni storiche, il mito e la voce dei poeti.
Un’antica leggenda delle genti del Sahara narra del deserto come nascita di un mare di sabbia da una sconfinata distesa lussureggiante, a causa della cattiveria dell’uomo. Dio, che aveva collocato quella parte dell’umanità in una vastissima regione verde e ombreggiata, aveva però raccomandato agli umani di comportarsi secondo giustizia: ogni crimine sarebbe stato punito con un granello di sabbia caduto dal cielo. Gli uomini, dimenticato il monito divino, non contarono le infrazioni alla legge del bene, i granelli si accumularono fino a tramutare quella distesa in un immenso deserto di sabbia.
Il deserto, nel mito sahariano, è una punizione. Per i sufi, mistici dell’Islam, rappresenta il grado zero dell’anima, quello stadio dell’evoluzione spirituale in cui la coscienza si trova in un vicolo cieco, non c’è speranza. Tutto appare svuotato, come negli assedi dell’accidia. Ogni consapevolezza deve necessariamente attraversare il deserto dell’angoscia, della disperazione. Deve accettare il senso di perdita e morte come tappa fondamentale dello sviluppo spirituale. Come accade nel mare, nel mito di Shakespeare: solo quando tutti siamo persi fino in fondo, nella Tempesta, ci ritroveremo.
Nelle città desolate e nelle periferie degenerate del nostro tempo i poeti hanno visto il deserto: la “unreal city” di Eliot, “città irreale”, non era spopolata, ma anzi turgida di una folla d’anime che mai tante ne avrebbe immaginato. Ma tutte perse. [...]