Divina bellezza dalla croce alla gloria
Sono i maestri dei maestri per un’arte che non passa: da Wiligelmo a Duccio, da Cimabue a Giotto
Elena Pontiggia
Altro che periodo buio, come gli illuministi consideravano il Medioevo! L’arte dei secoli medievali è luminosissima e attraversata da giganti. Certo, i nomi di Wiligelmo, Antelami, Nicola Pisano, Duccio di Buoninsegna, per citarne solo alcuni, non sono popolari come quelli di Leonardo, Michelangelo e Raffaello, e già Vasari poneva solo in questi ultimi tre il vertice dell’arte. Tuttavia, tra Ottocento e Novecento si è avviata una profonda rivalutazione di quei maestri che allora venivano definiti “primitivi”. Nel 1926, per esempio, Lionello Venturi (Modena, 1885 - Roma, 1961), figlio del grande storico dell’arte Adolfo, pubblicava Il gusto dei primitivi, dedicato all’arte dai bizantini a Giotto, riaffermandone polemicamente il valore rispetto al Rinascimento. Arretrando, rispetto a Raffaello, fino a riabilitare il Trecento, egli avanza contemporaneamente fino a nobilitare gli Impressionisti, in cui vede i nuovi primitivi, emblema di un’arte che non privilegia il disegno, la volumetria e il mestiere, ma il colore, la bidimensionalità e la spontaneità espressiva.
Ma anziché discutere in astratto della grandezza dei maestri prerinascimentali, vediamoli all’opera, scegliendo almeno qualcuno dei loro capolavori. Muoviamo da Wiligelmo e dalle sue Storie della Genesi, 1099, che troviamo nel Duomo di Modena. Di lui, il cui strano nome era forse una contrazione di Guglielmo, non sappiamo molto, ma la lode che gli tributa la città estense, scolpita sulla facciata della Cattedrale, è tra le più intense che un artista abbia ricevuto. E non solo per le sue parole (“Inter scultores, quanto sis dignus onore, claret scultura nunc Wiligelme tua”; vale a dire: “Quanto tu sia degno d’onore fra gli scultori, Wiligelmo, ora lo chiarisce bene la tua scultura”), ma perché quelle parole sono incise in fondo a un’iscrizione incorniciata fra le immagini dei profeti Enoch ed Elia, simbolo di immortalità. Gli ignoti estensori del testo sapevano che quelle opere, di cui ci tramandano il nome dell’autore (caso raro in quell’epoca che fu chiamata, non a caso, “l’età dei Maestri senza nome”) erano destinate a sfidare i secoli.
Tra le Storie della Genesi è emblematica La creazione di Eva. Non è un’immagine realistica: Adamo dorme in una posizione che più scomoda non si potrebbe, tutto storto, con una mano aggrappata a una roccia, una gamba incastrata su uno spigolo e un piede che calpesta quello dell’Onnipotente. Anche Eva sporge dalla costola dell’uomo in modo inverosimile, a rischio di battere la testa sul peduccio che la sovrasta. È anche per questa visione mentale che maestri come Wiligelmo sono stati definiti “primitivi”, in tempi in cui l’imitazione fedele della natura sembrava il vertice dell’arte. Ma così non è, e la delicatezza della scena, la maestosità e insieme la tenerezza di Dio Padre che porge la mano a Eva e al tempo stesso benedice i suoi figli non hanno bisogno di una verosimiglianza fotografica.
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