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Diga del Gleno, come una porta santa

Cento anni fa, il crollo della diga che provocò cinquecento morti, fra Val di Scalve e Val Camonica. Oggi, una memoria che invita a farsi pellegrini

​Lorenzo Rosoli

Fra Bergamo e Brescia c’è una valle che sanguina storia: è la Val di Scalve, terra di contadini, boscaioli, minatori, carbonai. E di migranti, quando la povertà e la fame mordevano implacabili. Quante ferite, a segnarne il corpo, a istoriare i suoi fianchi a tratti vertiginosi, lungo i quali l’operosità e la fede delle generazioni hanno piantato con ostinazione luoghi di lavoro, di culto, di vita.
La ferita più dolorosa e profonda porta un nome, una data. Un’ora. Disastro del Gleno, 1° dicembre 1923. Sono le 7.15 del mattino quando la diga, appena ultimata ai 1.500 metri d’altitudine di Pian del Gleno, crolla scaricando sulla valle sei milioni di metri cubi d’acqua. Questa massa immane, preceduta da un vento violentissimo, travolge gli abitati di Bueggio e di Dezzo, s’infila nella gola della Via Mala, che porta alla Val Camonica, semina morte e distruzione fino ad Angolo, Mazzunno e Corna di Darfo, per terminare la sua corsa nel fiume Oglio. Uomini, animali, alberi, case, fonderie, forni, centrali elettriche: tutto viene spazzato via. Un caos di acqua, terra, aria, fuoco. Più di cinquecento le vittime del disastro. Parola che da allora, tra le genti scalvine e camune, si pronuncia come se fosse scritta con la maiuscola: il “Disastro del Gleno”.
Le cause? A far crollare la grande diga - lunga 260 metri, realizzata dalla ditta Viganò di Triuggio su progetto dell’ingegnere Giovan Battista Santangelo, unico esempio al mondo di diga mista a gravità e archi multipli - non fu la fatalità, né lo scoppio di una bomba dei “sovversivi” - come insinuarono taluni, in quella stagione in cui il fascismo, preso il potere, andava a farsi regime - ma fu il criminale intreccio fra interesse economico, imperizia tecnica, insipienza politica e disprezzo per la vita. Materiali scadenti, condizioni di lavoro durissime (stigmatizzate anche dai parroci scalvini), insufficiente vigilanza delle autorità. E le voci inascoltate degli operai e dei valligiani che a cantiere ancora aperto, poi a opera appena ultimata, denunciano: la diga, malconcepita, malcostruita, perde acqua. È un gigante dai piedi d’argilla. Quel 1° dicembre di cent’anni fa dà ragione alle loro paure.
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