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Che impresa, la comunità

Il “miracolo italiano” è stato il frutto di una coralità produttiva e di una cultura economica antiche di secoli

​Luigino Bruni

L’Italia del dopoguerra era uno dei Paesi più poveri d’Europa. Molte città distrutte, moltissime danneggiate. Un sistema produttivo ferito, ancora di più quello agricolo. Il Pil era crollato dai 125 miliardi del 1938 ai 70 del 1945. Come ripartire? Quale modello industriale-produttivo favorire e incentivare? Il dibattito fu forte già a partire dall’Assemblea Costituente. Se ne trova traccia anche in alcune scelte lessicali e concettuali: nella nostra bellissima Costituzione repubblicana non è presente né la parola “impresa” né la parola “imprenditore”, mentre vi troviamo “cooperazione”. Le “anime” che la scrissero, per ragioni diverse, non se la sentirono di inserire queste parole economiche accanto alle molte parole della democrazia e della libertà. Ma la storia reale del Paese è stata capace di superare le ideologie, e farci vedere che impresa e imprenditore non sono parole meno civili e splendide di parlamento, scuola, chiese, lavoro. Ma non lo ha fatto con i libri, con i professori, con gli intellettuali: lo ha fatto con le mani di contadini, di operai, di casalinghe, di artigiani, di lavoratori e lavoratrici, che giorno dopo giorno ci hanno mostrato che impresa è una delle parole della libertà dei moderni, è una delle parole più belle che gli uomini e le donne sanno scrivere. Ambivalente come tutte le parole grandi – ambivalente e bellissima.
In quegli anni era ancora molto viva, dolorosa e forte l’eredità fascista del corporativismo, che si era fatto interprete della vocazione “comunitaria” e non conflittuale dell’impresa, che aveva ritrovato in un’anima della tradizione italiana ed europea (e nello stesso cooperativismo). Anche la via economico-industriale italiana del dopoguerra dovette dunque fare i conti con la scomoda e rinnegata eredità fascista, con la sua manipolazione di parole care sia all’anima cattolica sia a quella socialista (dall’impresa come corpo alla tradizione civile medievale delle gilde e corporazioni). Dopo la violenza all’idea di comunità operata dal corporativismo fascista ci volle il coraggio profetico di Adriano Olivetti per riparlare, negli anni Cinquanta, di “impresa di comunità”.
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