Certosini, così fu scritto il bel tacere
Il silenzio e l’uso estremamente parco delle parole sono regolati dagli Statuti dell’ordine monastico: la quiete paziente è l’attesa attiva dello Spirito Santo
Tonino Ceravolo
La cella monastica come il cielo. È Guglielmo di Saint-Thierry nel XII secolo, nella celebre Lettera ai certosini di Mont Dieu, a proporre questa “parentela”, poiché entrambi “celano” e «ciò che si fa nei cieli lo si fa anche nelle celle»: dedicarsi a Dio solo, godere di Dio. La cella - come sottolineano i certosini di Serra San Bruno in Calabria - è il luogo dove il monaco dedicandosi quotidianamente «alla lettura, alla preghiera, alla meditazione, alla contemplazione e al lavoro, persevera nel tranquillo ascolto del cuore che unifica la sua vita e la orienta alla comunione con Dio». Dentro la cella il silenzio delle labbra (il silenzio esteriore) si coniuga con il silenzio del cuore (il silenzio interiore), il solo, quest’ultimo, che consente di predisporsi all’ascolto della Parola. Proprio per questo l’assenza delle parole, di cui si fa esperienza nella cella, non deve essere pensata come un “vuoto”, bensì come l’autentico “pieno”, come ciò che consente, rimanendo da soli con sé stessi, di essere “abitati” da Dio.
L’analogia di Guglielmo di Saint-Thierry si potrebbe, d’altra parte, estendere all’intero monastero - non a caso spesso definito, nella tradizione monastica, come un “paradiso”, il paradisus claustri - perché è l’intero spazio claustrale a costituirsi come luogo del silenzio, in una dimensione che non esclude di per sé le parole (la parola è anche l’ausilio indispensabile della preghiera), ma il vaniloquio, la mormorazione, il borbottio, la lamentela, le urla, lo strepito, il rumore. Era stato già san Bruno di Colonia, l’iniziatore del monachesimo certosino oltre nove secoli fa, a richiamare, nella Lettera a Rodolfo il Verde, questo fondamentale aspetto della vita claustrale: «Quanta utilità e gioia divina donino la solitudine e il silenzio dell’eremo a coloro che li amano lo sa soltanto chi ne ha fatto esperienza».
Una dimensione che, per gli Statuti certosini, appartiene a entrambi i generi di monaci - i monaci del chiostro e i monaci laici (fratelli conversi e donati) - i quali, sebbene distinti nelle funzioni all’interno del monastero, condividono la stessa vocazione, pur se i primi «vivono nel segreto della loro cella e sono sacerdoti oppure sono destinati a esserlo» e i secondi «consacrano la loro vita al servizio di Dio non soltanto osservando la solitudine, ma anche dedicandosi maggiormente al lavoro manuale». Tale distinzione comporta, tuttavia, alcune conseguenze rispetto all’esercizio del silenzio: per i monaci del chiostro (definiti negli Statuti anche “padri”) esso costituisce l’essenziale della vocazione, mentre per i fratelli, non protetti «dall’isolamento del chiostro e dalla solitudine della cella», si tratta, piuttosto, di coltivare la “solitudine esterna” coniugandola, mentre si lavora, con la “solitudine interiore”.
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