Caterina da Siena, mistica di umanità
Prima donna (con Teresa d’Avila) a essere proclamata Dottore della Chiesa, è stata una forza profetica. Anche grazie a uno straordinario uso della lingua italiana
Antonella Dejure
Caterina da Siena DeJure
Il 4 ottobre 1970, nella basilica di San Pietro in Vaticano, Paolo VI riconosceva a Caterina da Siena il titolo di Dottore della Chiesa universale. Si trattò di «una innovazione di grande arditezza», dal momento che fino ad allora la Chiesa cattolica «non contava che trenta Dottori e tutti uomini: papi, vescovi, sacerdoti e un diacono»¹. La mantellata di san Domenico, proclamata santa da papa Pio II Piccolomini nel 1461, ed eletta Compatrona d’Italia da papa Pio XII Pacelli nel 1939, diventava così la prima donna, insieme con santa Teresa d’Avila, ad essere elevata al rango del Dottorato ecclesiale. Un titolo che, nella sua accezione costitutiva di universalità, apre tutti gli orizzonti, temporali e geografici, tanto da poter essere attribuito solo a un santo, la cui dottrina non sia «diffusa e ricevuta in un’epoca particolare», ma lo sia «lungo tutta la storia della Chiesa»². Caterina da Siena è perciò nel suo tempo, ma è soprattutto oltre il suo tempo. Ed è sulla base di questa dialettica, che travalica i limiti della storia contingente, che va cercata la perenne attualità della santa senese.
Già nel suo tempo Caterina si impone come figura di rottura, tanto da essere stata definita una «mistica trasgressiva» per i suoi comportamenti e le sue scelte che rendono vano ogni tentativo di classificarla secondo i consueti modelli della santità femminile medievale³. Vincendo la resistenza della famiglia, la giovane di Siena, dove era nata nel 1347, alimenta la sua prima esperienza spirituale e contemplativa da eremita domestica per poi irrompere attivamente nello spazio pubblico, mantenendo sempre la sua condizione di penitente che vive in modo autonomo in mezzo al mondo e distinguendosi per il carattere costruttivo del suo misticismo, in cui “storia intima” e “storia pratica” si intrecciano inscindibilmente. Fino al 1380, anno della sua morte, la figlia del tintore di Fontebranda cerca di indirizzare alla “santa giustizia” l’azione dei potenti di questo mondo, rovesciando così i consueti rapporti di soggezione che normalmente le donne intrattenevano nei confronti degli uomini e aprendo la strada alla partecipazione delle donne alla politica ecclesiastica e laica. Caterina mostra una lucida consapevolezza storica del disfacimento del comune italiano e del decomporsi della Chiesa, di cui incessantemente denuncia «li vizi e li peccati». In difesa di una Chiesa intesa come corpo sociale e spirituale, la terziaria domenicana elabora il suo programma di azione: l’abbandono di Avignone per Roma come sede del papato, e la riforma della Chiesa per la pace della cristianità, al cui interno trova spazio la sua visione della crociata. Il “passaggio” in Terra Santa è per Caterina una missione dall’effettivo valore strumentale: il fine ultimo è quello di includere tutti gli uomini nel cammino per la salvezza eterna e, pertanto, non si potrà limitare la redenzione solo ai cristiani, ma bisognerà necessariamente permettere anche agli infedeli di partecipare del “sangue dell’agnello”4. È in questo compito salvifico che Caterina individua il significato storico e insieme universale della Chiesa.
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