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Un cucchiaio e zia Carlotta la dedizione del quotidiano

​GUido Oldani

La santità riguarda il livello qualitativo che appartiene al divino, cioè la totalità della misura, qualunque essa sia. Chi volesse prescindere da qualsivoglia senso del divino o dalle diverse religioni affacciatesi ai millenni dell’umanità, potrà così aspirare a rimuovere il vocabolo dal dizionario.
Questo è il tempo dove le parole sembrano non godere della garanzia di eterna sopravvivenza, se non hanno un green pass da esibire, che certifichi la loro legittimità. Non è dunque difficile da immaginare, se il termine santità aleggia intorno al divino, che esso abbia a riflettersi sui singoli individui registrati all’anagrafe. Se penso a questa parola, santità appunto, compare subito, alla mia immaginaria rappresentazione, la presenza di una posata e, a meglio guardare e più oculatamente riferire, semplicemente un cucchiaio. Ogni volta che capitavo in un ristorante, ma era molto più probabile una locanda, per consumarvi il pasto di prescrizione, non potevo trattenermi da dare un’occhiata alle tavole apparecchiate; fossero esse in pieno esercizio con i commensali o ancora intonse con le stoviglie allineate, come armi in attesa di un culinario duello. I ristoranti lasciavano sfavillare le loro tovaglie candide, le locande quelle altre a quadrettoni. Ma eccoci al punto: delle tre posate di rito, l’attenzione mi è sempre caduta con regolarità sul cucchiaio. Netto e luccicante, tutto d’un pezzo, di lì a poco si sarebbe intinto in qualche minestrone, inzuppato in verdure, fregiato di formaggi. Sarebbe stato ghermito e portato più e più volte alla bocca di turno, svuotato e risucchiato, anche se non completamente ripulito. Così, a questa minuscola carriola senza ruote, tocca entrare in bocche di anziani o bambini, fra bei sorrisi o protesi arrangiaticce e denti superstiti rispetto ai trentadue assegnati d’ufficio. Ho sempre pensato all’umile cucchiaio come a un santo. Abbandonato mezzo sporco in una fondina non pulita, esso viene accatastato in una lavapiatti, dove verrà rimesso a nuovo, per quanto possibile, per il nuovo uso e così via, per un tempo come se non dovesse cessare mai. Ecco, questa a me è sempre parsa la dedizione di un santo. Colui che fa il bene in assoluto senza chiedere nulla per sé; né un riposo meritato, né un sindacato, né una menzione al merito per anni di fedele servizio: fatica, umiltà, perfezione.
Qualcosa di analogo l’ho visto a Imbersago, sul fiume Adda; mi riferisco al traghetto leonardesco. Una zattera enorme transita da una riva all’altra, da secoli, cambiando direzione al timone, per poi lasciarsi sospingere dalla corrente, pur controllata da una fune tra le due sponde. È un altro esempio di dedizione, senza alcuna gratitudine raccolta. Ma siccome però, per quanto alle volte gli uomini assomiglino agli oggetti, la storia la fanno soltanto gli umani, ricorderò un esempio che non mi era mai venuto alla mente.
La zia Carlotta, sorella maggiore della mia mamma, con uno scarto di ventitré anni, era nata a fine Ottocento. Era la maggiore di sedici fratellini e quindi già da bambina ha dovuto darsi da fare. Non c’era grande varietà di scelta occupazionale: la bimba andava al fosso a lavare i panni all’acqua corrente; erano tempi di tubercolosi e solo i benestanti potevano permettersi di avere qualcuno a servizio. Sono gli anni in cui fiorisce una letteratura ispirata ai sanatori e i buoni borghesi assistono alla Scala di Milano a opere come La traviata del nostro Verdi o leggono, commuovendosi, le pagine della Signora delle camelie di Alessandro Dumas figlio. A Carlotta non venivano affidati dei panni qualunque da lavare, ma soltanto la povera attrezzatura inerente il decorso della sofferenza tubercolotica. In pratica si recava al fosso con cesti di lenzuola e fazzoletti tolti ai poveri malati. Erano stoffe colanti di vomito sanguinolento e catarro dell’infinito sputare che questa sciagura comportava. Deve essere nato lì il detto “O mangia ’sta minestra o salta ’sta finestra”. La storia è durata qualche anno; tornava a casa con le mani gonfie e rosse. Aveva incontrato quotidianamente il Mycobacterium tubercolosis, ma questo l’aveva risparmiata. A me sembra, francamente, che il cucchiaio e la zia Carlotta, bambina lavatrice, con la santità abbiano non poco a che fare.