Tommaso d'Aquino e la svolta mistica della ragione
Sergio Givone
Nel canto XI del Paradiso, Dante affida a Tommaso d’Aquino l’elogio di Francesco d’Assisi. Il gesto di Dante è sorprendente. San Tommaso, il dottissimo maestro che ha applicato le categorie del pensiero aristotelico alla comprensione del cristianesimo, mette da parte la sua immensa dottrina per additare in san Francesco il perfetto imitatore di Cristo. San Francesco appare a san Tommaso un modello di vita cristiana non certo per il suo sapere, ma per essersi spogliato di tutto fino al sacrificio più alto. Sacrificio cristico. Francesco, dice Tommaso, come Cristo ha amato la donna che è salita con lui sulla croce, «dove Maria rimase giuso»: ha amato la povertà. Alla povertà ha consacrato la sua vita. Una scelta, questa, fatta quando, «giovinetto, in guerra del padre corse», e dopo aver presa la povertà in sposa «di dì in dì l’amò più forte».
Che cosa significhi questo amore assoluto per la povertà è chiaro. Essere poveri non vuol dire soltanto essere come i poveri, farsi umili, condividerne la sorte. Vuol dire convertirsi. Vuol dire vivere la propria vita in modo del tutto nuovo. La vita è brama. È possesso. È egoismo. Francesco insegna con l’esempio e non certo da una cattedra che la vita non è per noi ma per gli altri. È dono. È altruismo. Con lui il detto filosofico per cui vivere non è che «imparare a morire» acquista un sapore tutto suo. La morte diventa sorella, fedele compagna di viaggio, viatico salutare. Sta scritto: «Solo chi perde la propria vita la salverà». Non è forse vero che la gloria della creazione risplende sul volto del morente? Francesco scrive il Cantico delle creature in punto di morte, tormentato dalla malattia, e per giunta quasi cieco. L’inno che si leva dalla terra dove Francesco giace è in nome sia della vita sia della morte. La morte è accolta gioiosamente, come gioiosamente deve essere accolta ogni epifania creaturale. La morte «non può far male», come dice Francesco, a chi nel cuore ha non solo la pace, ma la gioia.
Mistico, più che sapienziale, il tratto che secondo Dante è tipico di Francesco. Fin qui nulla di particolare. Ma perché Dante ricorre al principe dei teologi per indicare nella rinuncia a tutto l’essenza della religione? Che cos’ha a che fare la teologia con il misticismo? Eppure Dante ha visto giusto. Nell’ultimo anno della sua vita Tommaso ha abbandonato forse per sempre gli studi cui ha dedicato la vita. Non ha più voluto scrivere alcunché, come fino ad allora aveva fatto giorno dopo giorno, infaticabilmente, per volgersi ad altro. Diciamo pure: per volgersi all’Altro. Quell’Altro di cui si va alla ricerca, solo dopo essere stati da Lui trovati. Ma come prendere atto di ciò con gli strumenti della filosofia e della teologia? L’ultimo e decisivo passo del suo itinerarium Tommaso lo compie grazie alla mistica del distacco, dell’abbandono, del silenzio. Ce lo ricorda Bruno Forte in un volumetto intenso e ispirato: Il silenzio di Tommaso (Piemme, 1998).
Al fedele Reginaldo che gli domanda: «Padre, perché hai messo da parte un lavoro così grande iniziato per lodare Dio e illuminare il mondo?», Tommaso risponde: «Non posso». Sembra non voler aggiungere altro. Ma poi: «Non posso. Tutto ciò che ho scritto mi sembra paglia in confronto a ciò che ho visto e che mi è stato rivelato». È come se a ordinargli di tacere fosse il Logos, o più semplicemente la ragione (ma la ragione è Logos, il Logos è ragione). Giustamente. Solo la ragione può imporre il silenzio. Altrimenti sarebbe violenza, arbitrio. Solo la ragione è in grado di darsi una regola e un metodo e di trattenersi sulla soglia dell’inconoscibile. Altrimenti sarebbe irrazionalismo. Ma la mistica non è irrazionalismo. Al contrario, la mistica è il riconoscimento della razionalità profonda che è in tutte le cose. È il riconoscimento che in tutte le cose è presente, anche se spesso non lo vediamo, o non lo vediamo affatto, il Logos, Dio stesso. E questo lo sapevano anche i filosofi greci, per i quali la scelta di dedicarsi alla filosofia comportava una vera e propria iniziazione. Chi vuol veramente filosofare, insegnava Plotino, deve spogliarsi di tutto, e non solo dei pregiudizi, ma anche dei desideri, delle ambizioni, delle smanie. Verrebbe quasi da chiedersi: e se la svolta mistica di san Tommaso non tagliasse affatto i ponti con il mondo greco ma, come già suggeriva Simone Weil, li ponesse su una base perfino più solida?