Sull'Amiata l'angelo del tempo
Ero ragazzino, credo quindicenne e, con lo zaino in spalla, salivamo sulle pendici del monte Amiata, nella Maremma grossetana, con le sue coltivazioni di silenzio e i suoi raccolti di serenità. Luoghi dove anche un giovane poteva allineare i significati delle riflessioni, come seguendo un insegnamento preponderante e benevolo per gli infiniti e disordinati dubbi dell’adolescenza. I pianori d’erbe erano isolotti nel mare verde dei castagni, fra i quali sbucavano ignoti e abbeverati dal sole. Salendo la strada, la polvere da noi smossa la delimitava, come una nebbia bassa, asciutta e subito pronta a ritornare fra i sassi di partenza. Non avevo mai visto dei pagliai così ben disegnati, torrefatti dalla stagione, se non in qualche riproduzione dei calmi e muscolosi dipinti dei macchiaioli. Fu lì l’incontro con il cinabro, minerale a portata di mano, pezzo a pezzo, con il suo color rosato, più adatto a un tramonto invernale che non al mercurio argenteo che, ben mascheratamente, lì dentro era contenuto.
Facevo tutte le mie fantasie su questa fuoriuscita mercuriale, di nascosto, per andare a sgocciolarsi nei termometri cari alle tonsilliti della mia infanzia. Incrociai una vecchietta, ma forse era un angelo millenario o magari una mia ava, lontana lontana. Quell’erba secca dei pagliai, il prato lussureggiante nel pieno della sua giovinezza, eravamo io e lei? Ci cercammo cogli occhi, io col foulard al collo, lei in testa, che però lasciava sfuggire qualche ciocca cara del suo argento. Sentivo il bisogno di parlarle, di avere in dono una manciata della sua voce. Era difficile scorgere, in quel disordine di rughe, il suo sorriso buono, ma lo decifrai. Mi aspettavo una rassicurazione, forse un lembo di profezia, di benevolenza arcaica. No, non era una sibilla ma una figura minuta alla quale sentivo di essere ascrivibile in qualche modo. Niente cultura classica ma storia della mia gente con i suoi incunaboli di sudore e buonafede.
Alla fine mi trovai a chiederle quanti anni aveva il suo casolare. Capii che avevo parlato come uno che vuol giusto dire qualcosa o meglio, che avrebbe voluto chiedere tutto, senza saper bene da che parte cominciare. Lei tagliò corto, più che dire esclamò. Prevaleva, nel breve suono, la musicalità sulla parola, il significante nobilissimo sul significato. Aveva proferito la parola “Madonnina!” Quattro sillabe arginate da un’esclamazione. E la vocale finale era tronca o declinante, tagliata di netto o raccordata alla valle di silenzio che albergava su quell’emblematico monte? È difficilissimo ricordare un suono di strumento orale percepito incisivo e flebile a un tempo. Già, “Madonnina!” aveva detto ed era una espressione attinta dentro di sé. Una creatura minuscola che raggiunge abissi di profondità, chissà dove dislocati.
La mia sconosciuta, angelica ava era un gomitolo di tempo. Oh santo cielo, mi verrebbe da dire ora, e mi accorgo che proprio di cielo sono imprevedibilmente chiamato a parlare. È trascorso oltre mezzo secolo da allora o forse è sempre lo stesso momento. Potrei magari essere io il rotolo temporale e la mia vecchina eterna, una ragazzina che mi si rivolge, chiedendo. Credo di capire. Era avvenuto, in Maremma, il mio fragrante incontro con la celestialità.
di Guido Oldani
*poeta