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Spes contra spem, speranza, la virtù che ama il rischio

​Maria Antonietta Crippa

Speranza progettuale, di Tomás Maldonado, e Sperare per tutti, di Hans Urs von Balthasar: due libri della seconda metà del secolo scorso che già nel titolo annunciavano la paradossale, qua­si disorientante forza propositiva della virtù che è, per Charles Peguy, bambina «piccina, che trascina tutto / Perché la Fede non vede che quello che è / E lei vede quello che sarà / La Carità non ama che quello che è / E lei, lei ama quello che sarà / Dio ci ha fatti speranza». L’architetto Maldonado, il teologo Von Balthasar, il poeta Charles Peguy convergevano sulla linea che segna, per ogni uomo, il colore del confine tra l’oggi e il domani.
Il primo è stato uno degli ultimi credibili difensori, negli anni Settanta, di una razionalità umana in grado di mutare con le proprie forze ambiente e società, dunque di restituire freschezza di novità al rapporto con una natura troppo sfruttata e con una cultura troppo contraddittoria. Un difensore portato dal rigore della sua razionalità sulla soglia di una “disperata speranza”, una virtù non cinica ma dagli esiti inarrivabili eppure insopprimibili.
Il grande teologo, da par suo, negli anni Ottanta rilanciava l’urgenza di questa virtù come condizione di vita in grado di abilitare ragione e cuore dell’uomo a percepire l’amorosa onnipotenza divina. Non concepibile apparve subito, anche a teologi di vaglia, tale possibilità di speranza, quasi fosse un’utopia di matrice cattolica che scuoteva il significato dei meriti umani e della giustizia divina. Per me fu lo spalancarsi di una proposta di salvezza infinitamente disponibile, nel segno della inarrivabile misericordia divina. Mi parve la pienezza della libertà alla quale mirava Maldonado, senza però riuscire a eliminare la minaccia della disperazione. Oggi, la civiltà occidentale sembra percorsa da una tensione sotterranea, dolorosa e fragile, tra i due fronti della speranza che abbiamo richiamato. La laicità della condizione di tutti provoca di continuo al­­l’im­pegno e al servizio per la costruzione di un mondo migliore su scala planetaria. Ne deriva un difficile ma necessario senso di responsabilità negli uomini che per con­suetudine chiamiamo occidentali. Essi sono ora spinti, da molti dati di fatto, a passare dall’ottimismo, ingenuo e insieme arrogante, a una progettualità paziente, disposta a registrare i propri fallimenti reputandoli non definitivi, con l’orecchio teso a percepire nuova vita anche fra i detriti di un mondo travolto dal connubio tra potere finanziario e dinamismo tecnologico. Il rischio in agguato è che ci si accontenti di un comune pensiero debole, senza immaginazione. Tuttavia, come ha affermato papa Fran­cesco nel 2013 richiamando san Paolo, la speranza cristiana è intrinsecamente una virtù non toccata da delusioni. In sintonia con l’apertura sconfinata di Von Balthasar, aggiungeva: «La speranza è una virtù rischiosa, una virtù, come dice san Paolo, di un’ardente aspettativa verso la rivelazione del Figlio di Dio. Non è un’illusione. È quella che avevano gli israeliti quando, liberati dalla schiavitù, dissero: “ci sembrava di sognare. Allora la nostra bocca si riempì di sorriso e la nostra lingua di gioia”».
«Dio ci ha fatti speranza», ha scritto Peguy, e Dio si è manifestato nel suo figlio Gesù; per questo possiamo sperare per tutti e in tutto, anche nelle nostre capacità progettuali. Ma a condizione che se ne sappia valutare la provvisorietà e quindi l’inesauribile perfettibilità. Soprattutto che le si investa di un dovere di solidarietà e di accoglienza che salda tutti, gli uomini e i loro ambienti di vita, in un comune destino di bene.
Mi sembra non sia più tempo oggi per pretese come quella lanciata da Le Corbusier nel pamphlet Quando le cattedrali erano bianche. Facendo leva sul mito delle cattedrali, proponeva una demiurgica volontà innovatrice. Lo stesso mito animava anche la celebre scuola Bauhaus. Oggi, tempo di chiese o abbandonate o quasi deserte, tale mito non funziona più. Un nuovo pericolo ci sovrasta: dimenticare che «là dove non c’è tempio, non vi saranno dimore», come ha scritto Eliot. Luogo che sancisce il legame fra tutti in Dio, il tempio – che sia casa di comunità e di famiglie o chiesa – ha sempre contrassegnato il prender forma di società fraterne in dimore aperte all’accoglienza.