Sant'Agostino e la lotta tra cielo e terra
Massimo Cacciari
L’inquieto cuore di Agostino è ancora il nostro. Infinitamente più di quanto non lo sia lo stoicismo drammatico del suo Seneca. Nella Cristianità per giungere a una voce simile bisogna attendere Pascal – a meno di non osare accostarlo a chi gli è tota mente opposto, Dante. La filosofia della storia e la teologia politica dell’Occidente cristiano stanno tra questi due poli, sono governate dalla polarità formata da questi due geni immensi.
Le due Città sono la città dove ancora abitiamo. Nessun dualismo in Agostino, nessuna gnosi che fissi astrattamente le categorie in base alle quali giudicare la storia. Entrambe le Città divengono; anche quella di Dio conosce diverse età e diversamente si intreccia con quella dell’uomo. Esse staranno perplexae et permixtae fino alla fine dei tempi. Pace tra loro in hoc saeculo non potrà darsi. Ogni momento della storia è segnato dalla loro complessità irriducibile. E dove la Città di Dio, d’altronde, potrebbe mai procurarsi i propri cives se non attingendo da quaggiù, nella città dell’uomo? Vi è un perenne scambio di cittadini tra le due Città. Ciascun abitante di quell’unica sede che comprende entrambe può trasformarsi in cittadino dell’una o dell’altra, passare dall’una all’altra. Non regna securitas alcuna neppure nella Città di Dio. Anche tra i discendenti di Sem e Iafet si trovavano dei comtemptores Dei, così come tra quelli di Cam dei Suoi cultores.
È una condizione perenne di potenziale stasis. La condizione è quella di un possibile continuo rivolgimento. Ma l’essenziale consiste nella comune radice: entrambe le Città sono uscite ex iauna mortalitatis. Sono dalla morte e per la morte, poiché finiranno entrambe nel Giorno del Signore. La Città di Dio non è perciò affatto un politeuma en ouranois, né può aspirare ad esserne più che una pallidissima immagine. E neppure la Città dell’uomo sarà mai “perfetta”. Non solo l’idea di una Polis o Civitas in grado di risolvere tutte le sue intrinseche contraddizioni è irrealistica – essa è concettualmente erronea, poiché ciò che è uscito da quella porta mai potrà pervenire a perfezione o “giustizia” alcuna. Sarà gran cosa se la Città dell’uomo perverrà ad esser retta almeno razionalmente, sia pure attraverso laboriosa bella. E di tale razionalità, come di quella specie di pace che si ottiene quaggiù anche attraverso le guerre, saranno partecipi necessariamente anche i cittadini della Città di Dio.
Una potente riserva escatologica, dall’immenso significato anche politico-pratico, nasce da questa visione. Nessuna Civitas deve essere venerata, nessun Impero considerato sine fine. Dare a Cesare? Sì, ma ciò che propriamente nulla conta per la nostra salvezza. Non solo – nessuna Civitas sarà mai vera res publica. Essa è una congregazione di interessi diversi e contrastanti. Un regime politico riuscirà magari meglio di altri a comporli razionalmente, a costituire un coetus multitudinis rationalis, ma mai diventare quell’Impero solidale con l’opera di conversione che è missione della Città di Dio, cui Dante anela. I cittadini di quest’ultima mai riconosceranno alcun Sole nel Politico che governa la Città dell’uomo (e alle cui leggi debbono obbedienza, ma soltanto fino a che esse riconoscano la propria natura contingente e mondana e non richiedano alcuna “venerazione”. E ciò obbliga tali leggi a essere scritte, razionalmente comprensibili e perciò pubblicamente discutibili, esenti da ogni arbitrarietà).
Lo stesso realismo che domina la visione della Città dell’Uomo informa di sé il giudizio sui destini della Città di Dio. Essa è insecura quanto i negotia e la pace-armistizio dell’altra. Molti reprobi, molte simiae di quella Simia che è l’Anticristo nuotano nel suo mare. La lotta, l’agòn si combatte anche nella Città di Dio, anzi appare qui ancora più drammatico e decisivo. Avviene come se ognuna delle due città agisse da hostis e hospes nello stesso tempo nei confronti dell’altra. Si combattono e ospitano insieme. Il rapporto politico amico-nemico viene così innalzato da Agostino alla sua vera altezza teologica, da cui soltanto può essere compreso.
Tutti però sono cives futuri. Nessuno ha qui stabile dimora. Il senso occidentale del divenire storico si manifesta così, ab origine. Nessuno sta: il cittadino della Città di Dio deve combattere e vincere ogni giorno l’Anticristo che è il periculosum maxime immanente al suo esserci, e insieme riproporre ogni volta con energia la propria differenza rispetto al Politico. Il cittadino della città dell’Uomo dovrà, a sua volta, tendere disperatamente (spes è virtù teologale, la speranza ha fondamento soltanto per chi ha fede) perché la Civitas divenga vera res publica. Di più: il primo tenderà a manifestare il proprio amore fino al disprezzo di sé, fino alla negazione di ogni philautia – e ciò contraddice in toto la natura del legame politico. Il secondo, d’altra parte, può svolgere l’amore per sé e il proprio interesse fino al disprezzo di Dio. E se quest’ultima tendenza prevale, allora la Città dell’uomo si trasforma in Civitas diaboli. Nulla può rendere impossibile che tali contraddizioni esplodano. Esse si manifesteranno in forme diverse, ma la loro radice, che Agostino vede, per così dire, sub specie aeternitatis, appare comune e inestirpabile.
La scena della nostra storia è segnata dalla rottura tra autorità e potere, che Agostino teorizza contro la religio civilis pagana. Nessuna potenza politica, nessun re o duce possono assumere un qualsiasi valore sacrale. La giustizia di cui possono essere capaci, e che è loro dovere perseguire, ha natura essenzialmente. amministrativa e distributiva. Questo limite costitutivo del Politico, come ogni confine, spinge però inevitabilmente al proprio oltrepassamento. E allora ecco riaffermarsi la figura del civis futurus. La nostra casa è sempre quella che deve ancora venire, la nostra vera patria è quella che ci manca. Il cittadino di entrambe le città, che nel tempo coesistono, è comunque un pellegrino, abita là dove è anche sempre straniero. Gli uni protesi a quella conversione che donerebbe certa speranza, gli altri all’impossibile di una Kallipolis in terra.
Un’energia straordinaria si sprigiona propria da tale contraddizione, così come da quella in generale tra Città di Dio e civitas hominis. Il civis futurus è forza sradicante, evoca a sé moltitudini ex omnibus gentibus, mette in marcia e al lavoro l’intero globo, trasforma, innova. È rivoluzione permanente. Quando l’Occidente si appiattirà sulla dimensione dei soli scopi tecnicamente perseguibili perdendo quel pensiero del Fine ultimo che ha imposto al potere mondano un confine insuperabile, tacerà insieme a Agostino lo spirito d’Europa. Forse stiamo da tempo vivendo nel loro silenzio.