Profeta della civiltà dell’amore
In una recente intervista si è affermato, a mio parere con ottime ragioni, che «la dottrina sociale della Chiesa deve a Paolo VI più di quanto si pensi» (Sandro Fontana). Il tema centrale di questa ripresa della “dottrina sociale della Chiesa”, alla quale il Papa dedicò la Populorum progressio (1967) e la Octogesima adveniens (1971), è quello del “legame sociale”. L’argomento, all’epoca oggetto di vaghe retoriche comunitarie (laiche e religiose) è letteralmente “esploso”. Un avanzamento preciso, rispetto alla dottrina del “bene comune”: che ne coglieva esattamente la soglia critica, in un contesto ormai segnato dalla tendenza dell’individualismo etico e del narcisismo di massa. La precisione dell’apparato categoriale impiegato da Paolo VI era indubbiamente in anticipo sul lessico più corrente della predicazione ecclesiastica (per esempio nel cogliere la complessità dell’urbanesimo come focus della trasformazione della comunità-società in collettività-moltitudine). Noi siamo certamente in ritardo, incalzati da eventi ai quali, anche grazie al suo magistero, dovevamo essere più preparati. La tendenza alla dissoluzione di tutti i legami, concepita come principio stesso della libertà individuale, segna il pesante indebolimento della sfera politica, alla quale mancano persino gli strumenti concettuali per dirimere il conflitto dei diritti individuali e del bene comune. Il nodo è diventato, nel frattempo, quello del «conflitto fra la nuova realtà economica sociale e politica, portata dal progresso industriale-tecnologico, e la capacità culturale e morale dell’uomo a dominarla» (Sergio Zaninelli). «Non basta accrescere la ricchezza comune perché sia equamente ripartita, non basta promuovere la tecnica perché la terra diventi più umana da abitare» (Populorum progressio, 34).
L’enorme impulso che Paolo VI ha dato alla passione ecumenica ha mostrato che il tema della fraternità cristiana dei credenti è il vero obiettivo della nuova immagine della Chiesa. La forma comunitaria del cristianesimo, infatti, così come la sua vocazione a essere principio di comunione fra i popoli, non è soltanto una cornice istituzionale o un sussidio strumentale della sua missione: essa è costitutiva della sua natura. Non posso evitare di domandarmi se, pur avendo ormai saldamente assimilata l’importanza testimoniale dei “legami di Chiesa”, siamo realmente all’altezza della lucida passione e della trasparente franchezza con la quale Ecclesiam Suam (1964) ed Evangelii nuntiandi (1975) hanno rimodellato il fondamento teologale dell’appartenenza realmente universale e della missione propriamente evangelizzatrice della Chiesa. La stessa lungimiranza antropologica della tanto discussa Humanae vitae (1968), la cui visione del legame di uomo e donna, fondamentale per la Chiesa (Ef 5,21), è stata troppo mortificata da una riduttiva interpretazione moralistica, mostra proprio ora di avere puntuale riscontro nella realtà – all’epoca ancora impensabile – di una radicale problematizzazione dell’originaria matrice sessuale della famiglia umana. L’inverno demografico e la tristezza narcisistica delle società occidentali – nelle quali eros divorzia in tutti i modi, e spensieratamente, da agape – portano in campo l’attualità di quell’ammonimento a non separare irresponsabilmente ciò che Dio ha unito.
Paolo VI ha visto – con precisione e passione forse ancora inadeguatamente comprese – la progressione delle ambiguità che attraversano le conquiste della modernità occidentale. E ha pure colto la necessità di rispondere alla sfida epocale portandosi sul terreno concreto di una forte provocazione alla testimonianza cristiana di un umanesimo possibile. È questo, infine, il senso profondo della celebre icona di Paolo VI, secondo la quale il cristianesimo lavora tenacemente, dentro i conflitti e le lacerazioni della storia, per una “civiltà dell’amore”.
di Pierangelo Sequeri
preside della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale