Non c’è amore senza sguardo, alla ricerca del vero Volto
Giovanni Gazzaneo
“Mamma, perché mi guarda?”
“Perché ti vuole bene”.
“Ma lui mi conosce?”
“Lui conosce tutti”.
“E sa come mi chiamo e come si chiamano tutti?”
“Sì, bambino mio. Conosce il tuo nome e il nome di tutti”.
Da allora quello sguardo me lo porto dentro. Il crocifisso, grande, in alto. Io piccolo, in basso. Lui è sempre Lui, dipinto o scolpito, millenario o contemporaneo, capolavoro o povero manufatto. Io stagionato dalla grazia del tempo. In fondo poco è cambiato. Lui mi guarda dall’alto e io ricambio dal basso. Lui inchiodato al legno, io piantato in terra. Lui orizzonte d’amore indifeso, con quelle braccia sempre aperte ad accogliere me, e tutti gli uomini e tutto l’universo. Io alla ricerca del vero Volto. Lui presente ovunque vada. Il mistero è racchiuso nel suo sguardo che tutto contempla e che ci conosce fin dal grembo di nostra madre. Noi ci riflettiamo in quello sguardo originario e così, solo così, scopriamo noi stessi fino in fondo, il nostro essere figli in principio e alla fine, il legame con Colui che è nostra genesi e nostro destino. In questo sguardo si gioca il rapporto tra Cristo e i discepoli di allora, di oggi e di ogni tempo a venire. Perché non esiste amore senza sguardo: sguardo che ferisce, che ci fa vivere la gioia e le pene dell’innamoramento, che scombussola, che mette in gioco, che cambia la vita. Una reciprocità che ben coglie Cristina Campo: «Tu, Assente che bisogna amare… / termine che ci sfuggi e che ci insegui». Credere e amare per il cristiano sono sinonimi. Innamorati e testimoni. Il testimone non trabocca di parole ma di gioia. Il suo sguardo l’ha reso partecipe di una storia, di un evento, partecipe della vita, di quel gioco quotidiano di libertà e provvidenza. Questo racconta la Bibbia: non ci offre miti, ma la storia dell’incontro tra Dio e l’uomo. Un’evidenza nell’immaginario medioevale, dove la fede è l’orizzonte del ricco e del povero, del sapiente e dell’illetterato: un mondo trasfigurato dalla presenza del divino, un universo simbolico dove la terra guarda al cielo e dal cielo si lascia fecondare. Ma lo sguardo può anche uccidere. Nei nostri giorni, dove ormai da tempo il logo ha sostituito il simbolo, domina Narciso, vittima dei suoi stessi occhi. Anche noi ci perdiamo nell’immagine del nostro io, siamo rapiti dalla superficie, incapaci di uno sguardo che vada oltre, nei cieli come nelle profondità interiori. Abbiamo solo sostituito lo specchio d’acqua con una molteplicità di schermi. Dimentichiamo che «l’uomo è se stesso solo per il fatto che il suo volto è illuminato da un raggio divino» (Henri de Lubac). Noi cerchiamo questo sguardo che va oltre. Noi aspiriamo a una visione che non si fermi alla superficie piatta o rugosa delle cose, ma che sappia sondarle in altezza e profondità. La bellezza cristiana non ha niente di utopico, non è neppure retaggio dei bei tempi che furono. È un abbraccio dove nulla si perde e “tutto è grazia”. La bellezza è contemplazione del volto e del mistero di Cristo nella sua triplice dimensione: il volto dell’Incarnazione, la bellezza disarmante del Bambino nella grotta di Betlemme; il volto della Passione e del Crocifisso, l’uomo-Dio che muore perché ama senza misura e fino alla fine; il volto del Risorto, la bellezza della Gloria e della vita nuova.
“Luoghi dell’Infinito” è anche la mia vita. L’ho ideato nel 1988 come rivista di turismo culturale e religioso. Poi mi è stato chiesto un nuovo progetto, nel 1996, e così è rinato come mensile di arte e cultura di “Avvenire”. Insieme a coloro che vi hanno collaborato abbiamo cercato di raccontare lo splendore dell’essere, lo splendore del Creato e della bellezza che l’uomo ha saputo generare nei millenni. E questo nel segno del dialogo, dialogo tra i saperi, dialogo tra personalità anche lontane per sensibilità, cultura, fede. Ho ideato ogni numero di “Luoghi” abbracciando quel che Andrej Tarkovskij indicava come “compito” per l’arte: «il tentativo di stabilire un equilibrio tra l’infinito e l’immagine», tra l’infinito e la parola. Diceva: «L’opera d’arte deve essere capace di suscitare una forte emozione, una catarsi. Deve essere in grado di toccare la viva sofferenza dell’uomo. Lo scopo dell’arte non è insegnare a vivere (forse Leonardo ci insegna qualcosa con le sue Madonne o Rublëv con la sua Trinità?). L’arte non ha mai risolto i problemi, semmai li ha posti. L’arte trasforma l’uomo, lo prepara a percepire il bene, sprigiona l’energia spirituale. È qui che risiede il suo alto fine».