Marco Polo, il mercante che ci regalò l'Oriente
Roberto Mussapi
Gemme, tappeti, taffetà, sete, aromi di sandalo e volute d’oppio, infinite distese desertiche e regni fastosi e lontani... Il Catai, l’imperatore mongolo, il Gran Khan. L’incanto e la tessitura di quel mondo sono narrati da un mercante che, spintosi fino alla capitale d’Oriente, divenne anche ambasciatore del luminoso Kublai Khan.
Fu un veneziano, Marco Polo, colui che dischiuse agli europei gli scrigni d’Oriente, come fu un genovese, Cristoforo Colombo, l’uomo che aprì le porte dell’Occidente, muovendosi nell’Atlantico verso le Indie. Due viaggiatori mitici di una realtà che costituisce un mito non ancora ufficialmente riconosciuto: Genova e Venezia non appartengono solo alla storia. Le imprese di Marco Polo e Cristoforo Colombo mutano radicalmente la civiltà europea. Marco Polo è il tipico rappresentante della sua città e della sua vocazione orientale: è inconsciamente rapito dal sogno magico dell’Oriente, pur essendo tutt’altro che un sognatore. Veneziano attento ai dettagli e alle considerazioni pratiche, come ogni mercante che si rispetti. Mercante figlio di mercanti. Suo padre e lo zio già si erano spinti verso l’estremo Oriente. Ma è lui, Marco, che con Il Milione ci introduce in un mondo sconfinato e magico. Veneziana l’attenzione ai dettagli, l’attrazione per il luccichio e il culto orientale del particolare, del mosaico... Siamo nell’aura di Bisanzio... Venezia, incastonata gemma per gemma, murrina per murrina, tessuta pizzo per pizzo, trasparente in ogni vetro soffiato a Murano, porta al mondo il racconto realistico e magico, dettagliato e stregante del grande Oriente. E se ciò avviene, se cioè nasce Il Milione, il libro in cui Marco svela queste meraviglie, è per merito (involontario) dei nemici della repubblica rivale: se i genovesi non avessero catturato e imprigionato il veneziano Marco Polo, dopo una battaglia navale conclusasi vittoriosamente, Il Milione non sarebbe mai nato. Nel 1298 Marco, rientrato a Venezia dalla Cina per sistemare gli affari nelle banche e dai notai, e poi ripartire, si trovò a combattere contro i nemici genovesi. In quanto mercante, cittadino emerito e per giunta molto ricco, armò un suo legno con cui partecipò alla battaglia di Curzola. Persa, fu catturato. Con tutto il rispetto che la diplomazia imponeva a quelle prigionie, da una parte e dall’altra, utilissime per trattative politiche e commerciali. Niente violenze, carcerazioni più che tollerabili. Con lui nella cella (nel ricco Palazzo del Podestà, non un tugurio) era un letterato toscano, in cerca d’ispirazione, Rustichello da Pisa, certo non un tipo distratto o superficiale. Smanioso di fare qualcosa in carcere, scrivere, si trovò di fronte la preda e il complice ideale, l’uomo che custodiva scrigni di meraviglie. I due passavano ore a conversare, anche per combattere la noia, e per un anno, affidandosi alla memoria corredata da appunti scritti nel lungo soggiorno in Cina, Marco riassunse e dettò tre lustri di avventure orientali. Il testo, redatto in franco-italiano secondo la moda dell’epoca, ottenne subito un successo epocale. La prima stesura non fu mai rivista, perché Polo, liberato, dopo un anno, ripartì per i suoi viaggi orientali e i suoi commerci popolati di visioni. Del libro, del Milione, insomma non gli importava niente: certo un’assoluta assenza di vanità, nessuna sete di onori.
Ripartì e scomparve, ma il suo prodigio perdura, per sempre, con le sue meraviglie: la tavola d’oro per i legati, su cui brillava l’emblema del Gran Khan, salvacondotto e insegna di comando, il bucherame degli armeni, un tessuto di tela cangiante come un camaleonte, poi al confine con la Georgia una fontana da cui sgorgava olio incessantemente, ma da ardere, olio rituale, poi i Turchi, uomini rozzi, ma che producevano i tappeti in seta più belli del mondo, poi, nei pressi dell’antica Ninive, panni di seta e oro detti mussolina... e i lapislazzuli, e gli adoratori del fuoco, e i maghi e il Vecchio della Montagna... e i magnifici cavalli e i girifalchi che accompagnavano alla caccia il Gran Khan, che galoppava tirando con l’arco all’indietro, e poi, tra gli arabi, immense quantità di turchesi, estratte dalle viscere della montagna... Le pietre da lui più amate: ne acquista un grande scrigno, ogni sera lo apre e gli pare «che in quello scrigno splenda il cielo d’Oriente».