La terra riarsa che io sono
Guido Oldani
Negli ultimi anni, il termine concernente il nostro argomento era soprattutto un verbo: desertificare, il cui suono soltanto era già minaccioso, inospitale, arido, spaventosamente ricco di calura e di sete. Desertificare era ed è un suono di minaccia sul destino nostro e del mondo.
Dentro di noi però, la parola deserto ha i suoi rinvii e i suoi tatuaggi sulle circonvoluzioni astratte della nostra povera mente matricolata. Il mio cervello, come le natiche dei bovini, reca impresse le iniziali aggressive del simbolo dell’assenza di ogni respiro: i deserti, plurimi e univoci. La colonna sonora del deserto è il silenzio, anche quello disegnato dal fremito d’aria o dal vento ululante, del quale non si conosce inizio e conclusione. Anche il crepitare del fuoco, in una notte passata nel deserto, assume un linguaggio mormorante e predittivo, interiore e persino minaccioso. Bellissimo da lì osservare l’altro deserto nel cielo, con la sua Via Lattea che scorre fra stelle senza data e prive di confine. Qualcosa di analogo l’ho provato stando in acqua in mezzo al mare senza vedere intorno a me alcunché. Il deserto acqueo, con le sue infinite incertezze di superficie, viene a lambire l’occhio che vi si acquatta, nel silenzio della sua sonorità.
Anche il deserto delle idee mi è ben noto. Se penso al Novecento che ricorda sempre e soltanto se stesso, con i suoi pur motivati piagnistei endemici, immagino un grande deserto di idee, depresso, ripetitivo e afoso. Lo stesso desertume lo ritrovo nel girare, con speranza sempre tradita, pagine di giornali o di libri. Tutto di già visto e previsto. Siamo nel totale deserto di ogni novità. Nella somministrazione di considerazioni sempre più uguali e ripetute, il tempo che scorre è certamente una variabile cospicua del deserto desertificato. Come se ciò non bastasse, proviamo ad aprire un programma televisivo a caso: vi ritroveremo, opachi ed appariscenti, i deserti succitati, separati o impudentemente miscelati e offertici come novità.
Dunque, al nostro tempo dell’apparente tutto, il nostro niente è vistosamente palese. Mai il deserto è stato trionfante e trionfale, come presso di noi. Eppure, come accennato, noi abbiamo anche l’esperienza contraria. Siamo tantissimi nelle metropoli e accatastati come tonnellate di grani di caffè tostato, nel corrispondente capannone logistico. Siamo come la verdura già sminuzzata in una confezione sottovuoto per il minestrone prossimo futuro da cucinare. Quella che un tempo fu un’insuperabile Babele, oggi è il nostro deserto quotidiano, che suscita più ironia che non paura.
In questi mesi, che solchiamo, siamo tantissimi, un po’ distanziati e le nostre facce assomigliano sempre di più alle mascherine antivirus che le imprigionano. Viene da fare il complimento «sei bella come la tua mascherina», che ogni giorno è di un colore diverso. Faccio sempre più fatica a distinguere il deserto dal gremito, la semplificazione dall’accatastamento. Eppure ho visto metropoli emblematiche svuotarsi di tutti gli abitanti di vie e piazzali, per rendere tutto vuoto come un colabrodo, dopo che l’acqua che lo abitava in un attimo è fuggita attraverso tutti i buchi. Siamo nel pieno del deserto metropolitano. Un virus invisibile ha reso visibilissimo il deserto urbano.
Ma, a dire il vero, questa è solo una delle tante facce della medaglia. Solo il barbone epico e coraggioso siede muto e padrone del sottopassaggio. Quell’altro in piazza canta e suona la sua chitarra. Rifiuta i dormitori dove albergano felicemente le cimici e lui sta sotto il tetto del Padreterno, con un po’ di scatolame e voglia di incidere un disco con canzoni del deserto metropolitano. Sarà lui il Dante del futuro, l’Omero che ricordiamo? Non certo chi ha poteri, che noi non abbiamo voglia alcuna di nominare. Gli altri sono stipati nelle case, come lenzuola litigiose in un armadio. Oppure soli, in case vaste, felici come un solitario verme dentro a una partita di gorgonzola. Ho sentito gente nelle case, con la bocca imitare il rumore del traffico, per nostalgia. Ma qualcuno, pochi o pochissimi, non so, genera in questo deserto le idee per il futuro. Il deserto è dunque beneaugurale per la derubata cassaforte del tempo.