La siepe claustrale abbraccia l’Eterno
di Bernardo Francesco Gianni
E intanto lievemente
le monache - poche e invisibili -
preparano per gli ospiti profani
e le aprono, un seguito di camere,
le stesse dove vissero
la regola e le vive ispirazioni
di quella plenaria solitudine
esse, e prima di esse
le altre innumerabili
che furono a quel macero
nei lunghi secoli dell’eremo
e gli ospiti serrati nelle celle
sottratte alla clausura si smarriscono
in quella vuota arnia della pura
ed infima pazienza, la riempiono
dei loro instabili pensieri
e gaudi e turbamenti…
Vorrei introdurre i vostri cuori nel recinto monastico cui allude la poesia di Mario Luzi. Li sentireste accolti dalla silenziosa penombra di quell’imprecisato eremo ove la fantasia del poeta immagina che abbia trovato provvidenziale ricetto la carovana di familiari e compagni che riconduce da Avignone alla natia Siena il pittore Simone Martini. Un pellegrinaggio trasfigurato dai versi del Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini che consigliano anche a noi una sosta notturna nella foresteria dell’asceterio immerso in «quella plenaria solitudine». Forse liberando l’immaginazione ispirata da tanta bellezza sillabica possiamo percepire quale dono prezioso sia il silenzio, sposo fedele di quella solitudine che riporta il cuore a misurarsi con le sue fragilità argillose, le sue durezze petrose, ma anche con le sue promettenti eccedenze che svelano quanto avesse ragione Pascal nel ricordarci che «l’uomo supera infinitamente l’uomo». Ma altro ancora può insegnarci la sosta «in quella vuota arnia»: lì è davvero facile smarrirsi, privi come siamo del nostro rassicurante rumore di fondo e delle loquele che ovattano il nostro abissale pensare. In quell’austera geometria claustrale il bulino del silenzio ha saputo incidere la pietra, intagliare archi e dunque asportare l’inessenziale, il superfluo, il vaniloquio. Ma noi che siamo «senza pura ed infima pazienza», al taciturno sostare «nelle celle sottratte alla clausura» preferiamo evadere in un virtuale altrove, sedotti dai nostri «instabili pensieri e gaudi e turbamenti». Ci tornano in mente le parole rivolte nel 2011 da papa Benedetto ai certosini di Serra San Bruno, la cui vita appartata egli avrebbe più tardi imitato: «Le città sono quasi sempre rumorose: raramente in esse c’è silenzio, perché un rumore di fondo rimane sempre […] I più giovani sembrano voler riempire di musica e di immagini ogni momento vuoto, quasi per paura di sentire, appunto, questo vuoto [...] Ho voluto accennare a questa condizione socioculturale, perché essa mette in risalto il carisma specifico della Certosa [...] Lo riassumerei così: ritirandosi nel silenzio e nella solitudine, l’uomo si “espone” al reale nella sua nudità, si espone a quell’apparente “vuoto” [...] per sperimentare invece la Pienezza, la presenza di Dio, della Realtà più reale che ci sia, e che sta oltre la dimensione sensibile […] Il monaco, lasciando tutto, per così dire “rischia”: si espone alla solitudine e al silenzio per non vivere di altro che dell’essenziale, e proprio nel vivere dell’essenziale trova anche una profonda comunione con i fratelli, con ogni uomo».
Nessuno ha mai saputo meglio sintetizzare il paradosso monastico che cerca nel silenzio e nel vuoto l’esperienza fondativa della Parola, della totalità e di quel dinamismo che, rivelandosi nel ritmo serrato della liturgia, trasforma il nostro tempo statico e ripetitivo in arditi prolungamenti di una inesausta storia della salvezza. Il sommamente utile, custodito dall’apparente inutilità della vita claustrale, è intuìto anche da quegli ospiti che nella pace siderale di quel cenobio riscoprono l’arte preziosa dell’ascolto, il cui apprendistato è tanto più fecondo quanto più convinto si fa il nostro ripudio di strepiti mendaci e infruttuosi perché scissi dalla realtà. Al risveglio, quando il silenzio cede al suono della campana «ne l’ora che la sposa di Dio surge / a mattinar lo sposo perché l’ami» (Dante, Paradiso X, 140-141), quei viaggiatori avranno capito perché «la Trinità è amica del silenzio», come annotava con ispirata sapienza il monaco medioevale Adamo di Perseigne: nient’altro se non il silenzio è lo spazio cavo, anzi la siepe claustrale entro cui le tre divine Persone possono amarsi, ascoltarsi e obbedirsi.
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Trittico biblico del silenzio
Elia nella grotta, l’evangelista Marco, Maria, da Betlemme fino al Golgota: tre “icone” scritturali dove la parola sembra assente
Gianfranco Ravasi
Tante volte è stato ripetuto il motto che il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein ha lasciato nel suo famoso e arduo Tractatus logico-philosophicus (1922): «Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere». Mai forse un detto è stato smentito nella storia come questo. Tra i due verbi tedeschi usati dal filosofo, sprechen e schweigen, che reggono la frase, l’ha sempre vinta il primo, il “parlare”, non il “tacere”. È un po’ quello che già due millenni fa insegnava un liberto di origini orientali, Publilio Siro, venuto a Roma e divenuto un maestro di etica, attraverso le sue circa settecento Sentenze che ci sono state tramandate. Estraiamo un paio di questi aforismi destinati a coprire entrambi i verbi di Wittgenstein: «Mi sono pentito spesso di aver parlato, mai di aver taciuto… La parola è lo specchio dell’anima: tale l’uomo, tale la sua parola».
Innanzitutto è importante il “tacere”, ed è difficile non confessare che invano ci siamo morsicati la lingua dopo che la parola era sfuggita dalla chiostra dei denti. Ecco, allora, la sana necessità di un’ascesi della parola, soprattutto in un tempo in cui il cellulare, che ad alcuni ustiona l’orecchio tanto ce l’hanno incollato, è un incentivo costante alla chiacchiera più sfrenata e banale. Ma c’è anche il momento in cui è necessario coniugare il verbo “parlare”. La seconda sentenza di Publilio è altrettanto lapidaria: qualis vir, talis oratio, la parola è specchio dell’anima e spesso dobbiamo riconoscere di non fare bella figura. Tra parentesi, ritornando ancora a Wittgenstein, lo stesso discorso vale per la parola scritta: «Coi miei numerosi segni di interpunzione - scriveva il filosofo - vorrei rallentare il ritmo della lettura. Perché vorrei essere letto lentamente». Se è seria e profonda, la parola detta o scritta ha bisogno di un alone di silenzio, di ascolto, di concentrazione.
Abbiamo iniziato la nostra riflessione sul silenzio nelle Scritture Sacre, che ora svolgeremo, partendo da due orizzonti esterni, quello della contemporaneità e - più remoto, ma altrettanto incisivo - quello della classicità. Entrambi si sovrappongono ricordandoci l’interazione necessaria tra parola e silenzio. È ciò che insegna anche la Bibbia che è per eccellenza Parola di Dio, ma è al tempo stesso “mistero”, vocabolo che ha alla base il verbo greco mýein, che significa “tacere, chiudere le labbra” (ed è ciò che accade quando si pronuncia questa parola).
Recentemente è stato tradotto in italiano presso l’editrice Qiqajon della Comunità di Bose il volumetto di un pastore protestante ultranovantenne, il francese Gérard Delteil, dal titolo emblematico, Al di là del silenzio. Egli parte da una frase suggestiva di un poeta suo connazionale, Edmond Jabès (1912-1991): «Dio è il silenzio che dobbiamo rompere». Infatti è, sì, il Lógos, la Parola, ma è appunto anche “mistero”. Non per nulla ciò che Giobbe scopre alla fine delle sue tante interpellanze lanciate a Dio è che il vero dialogo con Lui avviene col transito a un’altra esperienza, quella della visione che spegne le parole: «Io ti conoscevo per sentito dire, ora i miei occhi ti vedono» (42,5). Prima, però, lo stesso Giobbe aveva sperimentato non il silenzio ma il mutismo di un Dio simile a un imperatore impassibile relegato nel suo cielo dorato. È quell’apparente indifferenza che ha sconcertato e scandalizzato molti, anche teologi, di fronte alla Shoah, o davanti ai cataclismi della natura.
Di questi volti diversi del silenzio umano e divino, che può essere promessa e ferita, epifania e tenebra, è arduo descrivere i vari lineamenti. Esplorando l’enigma del silenzio, si incrocia appunto il crudo profilo del male che fa affiorare sulle labbra della vittima il grido biblico a Dio: «Perché nascondi il tuo volto?». Ma si dovrebbero inseguire anche altri registri inattesi, come quelli della presenza nell’assenza, del silenzio grembo della Parola, dell’eros del tacere (due innamorati veri, esaurite le parole, si guardano negli occhi senza nulla dire, eppure quel silenzio è molto più eloquente di qualsiasi dialogo), della fede da custodire soprattutto durante il vuoto della voce divina. Un capitolo finale fondamentale rimane, però, quello sul «ritirarsi» di Dio che, creando la persona umana, l’ha voluta dotata di libertà e responsabilità: a essa, artefice di violenza e di sofferenze atroci nei confronti del prossimo, e non tanto a Dio si dovrebbero rivolgere spesso tanti interrogativi laceranti sul male, sulla violenza, sull’ingiustizia.
Di fronte alla vastità di un tema che presenta mille sfaccettature, abbiamo scelto di delineare simbolicamente un ideale “trittico biblico del silenzio”.
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