Il segreto di san Francesco la fede è vita
Pierbattista Pizzaballa
Al centro dell’esperienza di san Francesco sta l’incontro con Gesù, che è il nocciolo della fede di ognuno di noi, ma che ha segnato e abitato la vita del Poverello in maniera totale. Ed è proprio questa la prima cosa che mi ha colpito nel santo di Assisi: la fede come punto di sintesi di tutta la sua vita. Una fede integrale che tutto coinvolge: il cuore, gli affetti, il pensiero. Chi mi conosce sa che sono un po’ secco, un po’ spiccio. E da giovane c’erano alcuni aspetti della vita di san Francesco che non riuscivo a comprendere e quasi mi irritavano. Ad esempio, quando piangeva e, a chi gli chiedeva perché stesse piangendo, rispondeva: «perché l’Amore non è amato». Espressioni un po’ romantiche, che da giovane frate minore facevo fatica a comprendere. Ma ora, dopo anni di esperienza, riesco a capirle di più. La fede di Francesco è integrale perché coinvolge tutta l’esistenza, anche le emozioni, non è meramente un’azione intellettuale, perché la conoscenza passa sempre dall’esperienza: la mente e il cuore, il cuore e la mente.
In secondo luogo, la fede di Francesco è trinitaria. Per lui è evidente che la fede in Dio Padre passa attraverso la fede in Gesù Cristo e che solo lo Spirito può darti questa capacità di aprire gli occhi all’incontro con il Salvatore.
Un altro aspetto importante della fede di Francesco è che per lui questa esperienza è un “vedere, toccare e credere” Gesù vero uomo, Gesù vero Dio. Caratteristico della fede e della vita di san Francesco, infatti, è l’amore per l’umanità di Cristo. Pensiamo a Greccio, dove egli ha voluto rivivere la natività del Signore, oppure ancora, al culmine della sua esperienza di fede, pensiamo alla Verna, dove ha voluto rivivere anche nella sua carne, fisicamente, l’esperienza della crocifissione e della morte di Gesù. Alla Verna Francesco scrive questa bellissima preghiera: «Ch’io possa sentire nel mio cuore quello stesso amore che Tu provasti quando eri sulla croce e anche nel mio corpo lo stesso dolore che provasti quando eri sulla croce».
Prima di ricevere le stimmate c’era in lui questo desiderio profondo, e questo desiderio esprime bene la vocazione del frate di Terra Santa: non c’è incarnazione senza luogo, non c’è umanità senza luogo, non c’è Greccio senza Betlemme e non c’è La Verna senza il Calvario…
Per un francescano stare in Terra Santa è parte integrante del carisma di Francesco, significa non solo custodire la memoria dell’incarnazione di Gesù, ma anche riviverla nel tempo attuale. Non a caso i pontefici, quando parlano della presenza dei francescani in Terra Santa, parlano sempre di un disegno della Provvidenza: i francescani, gli “araldi” dell’incarnazione di Gesù, siano in Terra Santa per custodire quella memoria dell’incarnazione di Gesù.
Nel Testamento di Francesco leggiamo: «Il Signore mi dette tanta fede nella Chiesa che ogni volta che incontravo una chiesa dicevo: “Ti adoriamo Cristo e ti benediciamo”».
San Francesco è un uomo molto concreto e il luogo dove s’incontra Cristo è la Chiesa, nella Chiesa si incontra Cristo, non c’è altra via per lui perché la Chiesa, attraverso i sacramenti, ci dà la possibilità di fare esperienza di Cristo, soprattutto nell’Eucarestia. Bisogna essere capaci di vedere non solo secondo la carne, ma anche secondo lo Spirito. Ed è proprio lo sguardo dello Spirito che ci porta a credere, nonostante tutto, nella pace. Come ogni altro abitante della Terra Santa, dal 7 ottobre scorso sono stato immerso in un mare di sangue e fuoco, ma non quelli di Cristo, nostra pace, o dello Spirito, giogo soave e leggero, ma della guerra, «giogo che opprime il popolo», come lo definisce Isaia (9,5). Così stiamo ancora anelando al giorno in cui «ogni calzatura di soldato che marcia rimbombando e ogni mantello intriso di sangue» saranno «bruciati, dati in pasto al fuoco» (Is 9,6). Dal 7 ottobre siamo stati presi nel vortice degli eventi e abbiamo visto morte, distruzione, ferite, violenza, rancore, desiderio di vendetta, e abbiamo cercato, con l’aiuto di Dio, di essere ponte, di tentare una mediazione, di tenere appesa a un filo l’ultima speranza di trattative… Quanto avvenuto mi ha legato ancor più al gregge di cui sono indegnamente pastore, nonostante le tante fatiche e tensioni che spingono da una parte e dall’altra, anche all’interno della nostra Chiesa. La nostra terra è ferita e sanguinante, la nostra gente in preda al terrore, al panico, all’incertezza del futuro. Per parlare di pace in questo travaglio, quando tutto sembra dire che non vi sia più speranza, mi sono di grande incoraggiamento i profeti dell’Antico Testamento. Ritengo che, in questa generazione, sia indispensabile la dimensione profetica, essere cioè capaci di visione, di orientare, di dare uno sguardo il più possibile libero sulla vita, rimanendo sempre ancorati alla Parola di Dio, dalla quale attingere forza e ispirazione. Se la Chiesa perde tale dimensione, parla semplicemente di ciò che la gente vuol sentire, che è un rischio ricorrente: il rischio di seguire la corrente, anziché orientarla. Al contrario, ciò che è peculiare dei profeti biblici è che spiazzano sempre le attese del popolo: quando è tranquillo e sereno, adagiato nelle sue sicurezze, il profeta scardina gli schemi e lo chiama a conversione, minacciando future sventure se persiste nella lontananza da Dio. Quando, tuttavia, il popolo è in esilio, senza speranza, e le sue città sono ridotte a un cumulo di rovine, il profeta stranamente lo spiazza ancora: gli dona consolazione e speranza. Certo, il profeta è pur sempre lacerato interiormente: come uomo di Dio deve annunciare la sua Parola, come uomo tra gli uomini e le donne della sua generazione subisce la stessa sorte del popolo e deve vedere sangue e distruzione. La vita del profeta contiene sempre un elemento drammatico. Appartenendo tutto a Dio e tutto al popolo, egli è dilaniato dall’appartenenza a entrambi, spesso solo, chiamato a essere voce che grida fuori dal coro: voce di minaccia e di consolazione, che da una parte ferisce e dall’altra consola. Non va dimenticato, inoltre, che dopo l’esilio - l’esperienza più devastante nell’Antico Testamento - i profeti hanno incoraggiato il popolo con parole di consolazione e speranza. Una, in particolare, mi è caro ricordare qui: «Ora, coraggio, Zorobabele - oracolo del Signore -, coraggio Giosuè, figlio di Iosadàk, sommo sacerdote, coraggio, popolo tutto del paese - oracolo del Signore - e al lavoro, perché io sono con voi - oracolo del Signore degli eserciti» (Ag 2,4). Il profeta deve per tre volte dire «coraggio!» e per tre volte insistere che si tratta di una parola che viene dal Signore e non da lui (in un solo versetto per tre volte si ripete l’espressione «oracolo del Signore!»). Ciò avviene perché il popolo è in una situazione di disperazione, pensa che non si potrà ricostruire, è convinto che non risorgerà dalle macerie, proprio come accade talvolta a noi, nelle tragedie o nei fallimenti della nostra vita personale e, in questo caso, sociale. Per questo il profeta Aggeo deve annunciare un messaggio impopolare e che sembra utopico a un popolo per cui ormai tutto sembra perduto: «La gloria futura di questa casa sarà più grande di quella di una volta, dice il Signore degli eserciti, in questo luogo porrò la pace» (Ag 2,9).
Aggeo invita il popolo a riedificare la casa del Signore a Gerusalemme, che è in rovina. Oggi ci troviamo in un momento simile, non solo in Terra Santa, ma anche nel mondo e nella Chiesa. In questo senso, ci aspetta una grande missione: insegnare e imparare come ricostruire il mondo che vacilla, come curare l’umanità ferita, come riedificare nella bellezza, nell’armonia e nella cultura, come essere costruttori di pace, “artigiani della pace”, come dice papa Francesco. Artigiani di pace nel segno del santo di Assisi che scriveva nel Testamento: «Il Signore mi rivelò che dicessi questo saluto: il Signore ti dia pace». Francesco è uomo di pace ed esorta i suoi frati a portare a tutti questo saluto come annuncio e benedizione. Tommaso da Celano nella prima biografia scrive: «In ogni suo sermone, prima di comunicare la parola di Dio al popolo, augurava la pace. In questo modo otteneva spesso, con la grazia del Signore, di indurre i nemici della pace e della propria salvezza a diventare essi stessi figli della pace e desiderosi della salvezza eterna». Oggi i francescani di Terra Santa sono chiamati a vivere questa profezia.