Il potere e la gloria, ma solo l’arte vince il tempo
Sergio Givone
Che cosa rimarrebbe della storia dell’arte senza il mecenatismo? Senza il mecenatismo di papi, re e principi, ma anche di semplici cittadini (Mecenate era tale, anche se vantava origini aristocratiche ed etrusche), non ci sarebbero né le Stanze Vaticane né la Sistina, ma neanche l’Eneide e neppure… le Piramidi. Il mecenatismo appare come un omaggio all’arte o un tributo più o meno generoso o più o meno interessato a essa, ma anche molto più di questo. Ne è, il più delle volte, la condizione. Perché opere d’arte vedano la luce, bisogna che un mecenate se ne faccia carico, nel senso che costui deve dare tutto il supporto economico, e non solo economico, che è indispensabile affinché l’opera trovi la sua realizzazione più piena e più soddisfacente.
Siano dunque elogiati e onorati come meritano tutti coloro che, in ogni parte del mondo e in ogni epoca storica, si sono assunti onore e onere. Ma con ciò il discorso non è affatto chiuso. Al contrario, è appena iniziato. Sospetto e diffidenza chiedono la parola. La domanda da farsi è: ma che cosa spinge il mecenate a fare il mecenate? Basta l’amore per l’arte a spiegare il suo gesto, non solo munifico, ma anche appassionato, com’è appassionato il comportamento di chi non esita a mettere una fortuna a disposizione di un artista? In un suo romanzo memorabile, La morte di Virgilio, Hermann Broch, nel 1945, racconta come Mecenate convinca Virgilio a mettersi al servizio di Ottaviano Augusto. Ottaviano gli concede gli agi di una vita interamente dedicata alla poesia. In cambio ottiene che la sua arte celebri la gloria di Roma e insieme dia lustro alla propria progenie, che vien fatta risalire a Enea e identificata con l’originaria stirpe romana.
Mecenate si fa in tal modo intermediario di un contratto insidioso ed equivoco. La poesia viene piegata a esigenze di potere. Addirittura svenduta, se non prostituita. Quando Virgilio, malato e ormai alla fine della sua vita, se ne rende conto, è troppo tardi. Non gli resta se non chiedere agli amici più fidati di bruciare la sua opera, così che dopo la sua morte non gli sia ritorta contro a titolo di infamia. Ma gli amici si rifiutano di farlo. Forse ritengono che la bellezza di cui la poesia è portatrice giustifichi il tradimento della verità. O forse, più probabilmente, credono che la verità della poesia sia più forte di qualsiasi menzogna. Sono cioè convinti che nella poesia la verità dell’umano venga alla luce anche quando la poesia ci illude o ci inganna. Purché si tratti di autentica poesia, naturalmente.
Importante è che il poeta resti se stesso. Così come importante è che il mecenate sia mosso anzitutto da amore per l’arte e solo secondariamente da altri scopi. In questo caso c’è da sperare che l’idea di verità e di bellezza, che è intrinseca alla poesia, dissolva e vanifichi quanto di ideologico essa potrebbe contenere, e lo faccia cadere come un inutile orpello. Non è esattamente questo che accade quando leggiamo l’Eneide con occhio puro e con cuore sincero, com’erano in realtà il cuore e l’occhio di chi ha creato quell’opera sublime?
Comunque lo si consideri, il fenomeno del mecenatismo evidenzia un conflitto fra le ragioni dell’arte e le ragioni della politica che riguarda sia il mecenate sia l’artista. Certamente il mecenate tradisce l’arte che proclama di amare quando la strumentalizza e la converte a fini extra-artistici. Ma se a prevalere è il suo amore per l’arte, la tentazione dell’ideologia è vinta in partenza, né l’ideologia potrà rivelarsi altro che una sovrastruttura. A sua volta l’artista che si lascia corteggiare dal potere e lo compiace mette a repentaglio la riuscita e il senso stesso del suo lavoro. Però non ci sono cedimenti da cui non possa riemergere, se saprà essere fedele alla sua opera e dar retta a che cosa l’opera, e non il committente, gli ordina di fare.
La storia dell’arte è ricchissima di episodi che mettono in scena questo dramma. Un solo esempio: il tormentato rapporto fra Giulio II e Michelangelo. Durante i quattro anni che durò l’esecuzione degli affreschi sulla volta della Cappella più celebre al mondo, Giulio II fu per Michelangelo una presenza continua, tanto assillante quanto incoraggiante. Al loro contrastato rapporto Irving Stone ha dedicato nel 1961 un romanzo, Il tormento e l’estasi, da cui un film che ha lo stesso titolo.