Il mio viaggio in Italia
Timothy Verdon
Adiciotto anni venni dagli Stati Uniti in Italia: a Venezia e poi a Firenze. Era il mio primo anno di università, e dai gesuiti, presso cui studiavo a New York, avevo avuto il permesso davvero singolare di passarlo all’estero, con compiti assegnati dai professori, i quali al mio rientro avrebbero valutato il lavoro. Ero iscritto a lettere, e fu dalla letteratura anglo-americana che ebbi l’ispirazione del Grand Tour in Italia, e soprattutto a Venezia. Mi aspettavo il Paese descritto dai romanzieri dell’Ottocento e lo trovai, o almeno così mi parve: nel lontano 1964 non c’era ancora la globalizzazione. E fu allora, nella basilica di San Marco, che intuii la direzione che avrebbe preso la mia vita futura. Guardando i mosaici provai stupore per la loro leggibilità. Capii che, nonostante la distanza temporale che mi separava dai committenti e dagli artisti medievali, quelle immagini mi parlavano chiaramente grazie alla cultura biblica e liturgica che le aveva generate e in cui anch’io ero stato allevato. Feci per la prima volta il collegamento tra la mia educazione cattolica – in casa, in parrocchia, nel collegio dei gesuiti – e la millenaria tradizione d’arte sacra di cui i mosaici marciani sono esempio. Fu una sorta di rivelazione.
Nel silenzio della città lagunare scoprii anche il monachesimo, acquistando in una libreria La montagna dalle sette balze di Thomas Merton, uno scrittore americano che, da giovane, in Europa, aveva sentito la chiamata del chiostro. Scrissi a Merton nel suo monastero trappista in Kentucky, e rispose per lui un monaco invitandomi ad andarli a trovare al mio ritorno; cosa che feci, per poi entrare (ma solo diverso tempo dopo) in un monastero benedettino statunitense dove rimasi alcuni anni. A Venezia cominciai a studiare la storia dell’arte, per meglio comprendere le belle cose che vedevo tutti i giorni. Lessi Ruskin, m’innamorai di Giovanni Bellini, venni presentato da amici alla Fondazione Cini dove ottenni una borsa di studio. Senza rendermene conto, avevo imboccato il doppio sentiero che ha caratterizzato la mia vita: filologia e spiritualità.
Nell’estate del 1965 mi trasferii a Firenze, per conoscere anche l’altra famosa città d’arte italiana. Dopo nove mesi a Venezia, però, il rumore del centro fiorentino mi dava fastidio e cercai un alloggio un po’ fuori città, a Fiesole, dove una comunità di suore inglesi mi affittò la portineria della villa in cui ospitavano prelati e sacerdoti in viaggio per Roma. Nella cappella della villa servivo la santa Messa, e fu lì, tra i cipressi, che lessi per la prima volta tutta di seguito la Bibbia, dalla Genesi all’Apocalisse. Andai a Firenze raramente, preferendo il mio ritiro sulle colline. Un giorno, dopo una visita agli Uffizi, ascoltai la Messa in Duomo. Venne cantato il Gloria, e alle parole “glorificamus Te... propter magnam gloriam tuam” capii con gioia che è proprio così: noi glorifichiamo Dio a causa della sua grande gloria. La bellezza dell’arte che stavo scoprendo e la prospettiva ancora lontana della vocazione mi sembravano componenti di quella gloria di Dio che mi spingeva a glorificarlo. Non potevo immaginare che trent’anni più tardi sarei stato ordinato prete nella stessa cattedrale, dove ormai da ventisei anni presto servizio, prima come cappellano e poi come canonico.
Passai gli ultimi mesi di quel primo anno italiano a Roma, ospite dei trappisti di Frattocchie, sulla via Appia Antica. Vedendomi attratto dalla vita monastica, dopo qualche giorno in foresteria mi spostarono nel noviziato, dove pregavo, lavoravo e mangiavo con i novizi. Ero felice, anche se sapevo di dover tornare negli Stati Uniti per completare gli studi. All’epoca l’abate e la comunità erano francesi, ma il maestro dei novizi era italiano: un monaco molto buono, che dopo il lavoro ci dava spesso un po’ della cioccolata che i monaci producevano. Quando ci toccava scendere nelle cantine ad attingere l’acqua da un pozzo sotterraneo, il gran fresco sembrava refrigerio spirituale. In quell’autunno del ’65 vidi poco della Roma monumentale. Ma tra gli ulivi di Frattocchie si consolidarono in me le esperienze di bellezza e spiritualità del periodo veneziano e di quello fiorentino. Lasciando l’Italia, sapevo che ci sarei tornato.