Il Paese della grande bellezza prigioniero del proprio miraggio
Alessandro Beltrami
Una leggenda tutta nostrana vuole che una percentuale oscillante tra il 50 e il 70 per cento dei beni culturali mondiali sia conservata sul suolo italiano. È un dato infondato, che rivela in realtà quanto ignoriamo cosa ci sia oltre i nostri confini. Non andiamo forse al Louvre per guardare la galleria degli italiani, la sola che probabilmente riusciamo a capire a causa di una formazione scolastica autocentrata, sorvolando le altre migliaia di metri quadri dove incontreremmo artisti, epoche e opere da noi introvabili? L’Italia come paese della “grande bellezza” è l’ultimo appiglio a cui aggrappare un po’ di orgoglio patrio, il cui crescente peso nella retorica a tutti livelli, dallo slang del marketing che ha soppiantato la promozione culturale all’ufficialità governativa, dovrebbe insinuare il dubbio che il sovranismo sia un virus più pervasivo di quanto si possa pensare.
Se volessimo trovare una radice di questo eccezionalismo culturale italico probabilmente dovremmo forse cercarla nel Grand Tour. Sono state queste schiere di “foresti”, e in particolare i loro resoconti entusiasti, a modellare l’immagine di una Penisola dei tesori. Una terra così meravigliosa che i suoi stessi abitanti nemmeno se ne accorgevano.
D’altronde i grand touristes vengono in Italia per il suo passato più che per il presente: persino il paesaggio racconta di un tempo dissolto. Non hanno tutti i torti. Da oltre un secolo la città dove cresce la nuova pittura è Parigi. Solo la musica parla ancora soprattutto italiano, ma le mete ambite da ogni musicista sono di nuovo Parigi e Londra. Le scienze e la filosofia parlano inglese, francese e tedesco. Sono le lingue dei viaggiatori. Le geografie della modernità – politica ed economica prima ancora che culturale – sono già disegnate. L’Italia, forse non provinciale ma di certo periferica, non c’è.
Non è un caso che la gente del Grand Tour faccia tutto sommato comunità a sé. La Penisola, luogo mitico e magico, appare l’anticamera di quel che sarà di lì a breve la percezione del Vicino Oriente: una terra su cui si proiettano due paradigmi interpretativi, il primo di tipo appropriativo, basato sull’idea dell’origine della propria civiltà; il secondo di tipo contrappositivo, basato su pregiudizi socio-politici e razziali.
Eppure il Grand Tour, col suo fermentare di superlativi, ha fissato l’immagine dell’Italia sulla quale la nazione unificanda e unificata ha costruito l’immaginario degli italiani. Ma una gloria perduta, con la sua natura di finzione narrativa, è un modello malfermo per una identità. Ci ritroviamo così a guardare ancora l’Italia sotto l’effetto mitopoietico e forse anche immobilista del Grand Tour. A partire dal suo canone: Venezia Firenze Roma Napoli. Perché non Bologna o Genova? Perché non Milano? Ma Milano, asburgica e poi napoleonica, con un duomo teutonico, allora aveva la testa più nel presente europeo che in quello peninsulare. Non è un caso che Milano sia rimasta a lungo fuori dalle rotte moderne del turismo, anche quelle “interne”, nonostante la presenza del Cenacolo, l’immagine più celebre del Rinascimento, così celebre da essersi staccata dalla sua matrice per assumere una vita propria. E se Milano è entrata finalmente tra le mete internazionali non è per il suo passato ma per il suo essere, nelle contraddizioni, un laboratorio di presente.
Ma se c’è un’eredità del Grand Tour che dovremmo guardare con maggiore coscienza critica è quella dell’Italia come “museo diffuso”. Non per la sua intuizione: sono proprio questi esploratori a capire che la peculiarità specifica del nostro territorio (in virtù dell’assenza storica di una identità politica nazionale) è la pervasività del patrimonio. Ma per la sua interpretazione. Uno dei princìpi cardine della museologia moderna è che quando un’opera o un oggetto entra in un museo perde statuto e funzione della “vita” precedente. Il Grand Tour è contemporaneo alla nascita del museo e ha gettato uno sguardo museale sull’Italia. L’Italia lo ha fatto proprio e si è messa sotto una bacheca. Se il suo territorio deve essere un museo, almeno adeguiamolo alla riflessione contemporanea: non solo un luogo di piacere estetico, ma anche uno spazio di dibattito e di comunità.