Il Lambbro ha gli angoli retti
Guido Oldani
«Terra, terra!», gridava il marinaio sull’albero maestro della caravella e Cristoforo Colombo trasaliva. «Terra, terra… terra, terra!», urlava il maestro di Vigevano di Mastronardi, imitando il marinaio, mentre teneva una lezione sulla scoperta dell’America, guardando fuori dalla finestra attraverso un foglio arrotolato. «La terra, l’è bassa», dicono dalle mie parti, per indicare che, a lavorarla, ci si deve faticosamente incurvare. Il mio territorio è una specie di bavagliolo rettangolare legato sotto il faccione della metropoli milanese. A ovest, è delimitato dal fiume Ticino, con le sue lance, spinte coi pali sul fondo. A est, scorre la più azzurra Adda, con il suo barcone fluviale, che va e viene, passando sotto il ponte di Lodi, conquistato da Napoleone a soli ventisei anni. A sud, c’è il placido, ma non troppo, fiume Po, che tutto raccoglie nel bene e nel male. In mezzo, scende, come un ubriaco geometrico, il Lambro, ad angoli retti. Su uno di questi gomiti, sono venuto al mondo. In quel fiume ci ho messo i piedini, prima che l’acqua diventasse inguardabile. Ora è abbastanza ripulito e vedo banchi di grossi pesci, che sembrano formazioni di ciabatte in movimento. Intorno, erba dappertutto, con fossi, canali e ogni ben di Dio irrigante. I filari di pioppi, quelli rimasti, fanno chiacchierare le loro foglie anche con una brezza di poco conto. I pioppi, cari a Ercole, sembrano enormi lampioni con la chioma straverdeggiante. Da spogli, ostentano i grossi nidi di corvi, intessuti come i canestri dei padri del deserto.
È il maiale che ci ha salvati; nella peste del Boccaccio come in quella del Tramaglino, i piccolissimi casolari avevano l’unico maiale, le cui carni servivano a non morire di fame. Quanto a me, da bambino, al pascolo delle mucche in bianco e nero, ero l’aiutante del cane pastore. Ma era dai cespugli di sambuco che andavo a spiare i piccoli dei merli, mentre le loro madri raccoglievano bacche per imbeccarli.
Pare che questa sia la terra più fertile del mondo, dicono gli agronomi, al punto che un fondo agricolo qui, ma io non ne possiedo alcuno, vale il doppio che se fosse a nord di Milano. Amavo vedere i fiumi straripare e da bambino il Lambro mi è venuto più volte in cantina, ma non chiedevamo un bel niente a nessuno. Credo che questo mi abbia rafforzato il carattere. Fuori, le galline segnalavano le uova deposte, il cane l’arrivo di qualcuno. Mangiavo un chilo di pomodori al giorno e, timidissimo, diventavo rosso come loro. Poi mia madre mi insegnò che tutti contano niente, salvo il Padreterno. Ho perso ogni senso di timore degli altri.
Lo zio Enrico, pittore, aveva classificato ventitré verdi differenti nella “Bassa”. Credo di avere interiorizzato questa scala musicale, cromatica della vegetazione. Così, ho vissuto sul confine metropoli-campagna e ho visto quest’ultima allinearsi sempre più alle forme dentute della città. Il nostro verde grasso si è adattato ai denti del pettine edilizio, come una bella chioma femminile allo strumento energico della sua pettinatura. Nel frattempo ci siamo mescolati popoli e colori, come le banconote nella tasca del solito usuraio, ovunque mai assente. Compaiono, immeritatamente, sterminati capannoni di logistica e io ricevo i loro dipendenti, in via di strangolamento, con un bicchiere di acqua fresca d’estate o di caffè caldo d’inverno. Gli angoli retti del fiume Lambro sono ora quelli delle viuzze cresciutemi intorno. Anche la bruttezza ha un suo fascino. Ne sono quasi diventato un esperto. Qui dove passano autostrada, via Emilia, ferrovia e fiumi, sono transitate le testuggini romane, i barbari, gli eserciti, compreso quello del Barbarossa. Mia mamma ricordava che «scendevano le bombe in diagonale come bottiglioni», ma il ponte ferroviario che unisce nord e sud non è stato mai centrato. Le abbazie nel mais sono le fabbrichette lombarde della preghiera mai spenta, come un altoforno. Mi sento come se fossi in una trincea, ma la vivo interpretandola come un aeroporto. Qui, dove partono le navi spaziali dell’accatastamento civile, ha luogo la tragedia in corso ma, avviso subito, questo teatro greco ha tutta l’intenzione di trasformarsi più in un carnevale, in cui vorrei approfittare dei nostri non molti vigneti, dai bei rotondi acini di rame.