Esiliata carne
Massimo Lippi
Come se da un cuore esiliato da primordiali terremoti fosse diruta l’Antica Roma e tutti i fasti del mondo o come se l’Anima nostra veliera andasse peregrinando in linea retta, lieve corridora, verso l’Infinito. Come se la Montagna Sacra dell’esilio, d’improvviso s’innalzasse limpida sopra la pianura afosa, nella coscienza di ciascuno. Luogo eminente dell’attesa che viene ad abitarci nell’abbandono, in una stanza buia apparecchiata d’ogni vivanda, quasi fosse l’ambiente nativo della luce che germina nell’orto concluso dell’Anima. Evocazione luminosa che trapassa la boria e l’inganno de’ sensi. Perché solo nel volontario esilio, per grazia c’è salvezza. Infatti Ovidio, poeta latino, bruciò per disperazione la sua grandissima opera, Le Metamorfosi, e morì esiliato sul Mar Nero lontano dalla potente e temibile Roma. Sebbene, per miracolo, un devoto e solerte amico fece rivivere quelle esiliate ceneri del dolore in tutta la grandezza della sua opera, copiandola prima che fosse abbrancata dalle nefaste fiamme. Così la nostalgia - il dolore mortale per la patria, per il paese lontano - è l’esilio forzato che strazia l’Anima e infine uccide. Ma siamo sempre nel dolore inflitto dalla barbarie del potere: incagliata barca nella fumante palude del tempo e della storia. Questo non è vero esilio che conferisce lo Spirito, cioè quella metafisica e virtuosa distanza tra cielo e terra, da cui scocca la freccia del pensiero oltre le stelle. È invece il nome della tortura, ma declinato in modo opposto tanto che è davvero un esilio coatto, prigione del corpo e dello spirito, lenta agonia senza manco il conforto dei maggior tui, direbbe Dante. Figura dei Padri, di coloro che ci hanno generato a nominare le cose del mondo e al gusto di dare significato e grandezza di azione a quell’amore germinato in famiglia e nella terra nativa. Dante medesimo è morto in terra d’esilio, perciò pativa il dolore di chi geme per la sua gente lontana. Pativa per non raggiungere l’indefettibile Pace di Dio. Pativa il suo detto, «come sa di sale lo pane altrui». Ma ci vuole il cuore integro del leone di Giuda, esiliato dall’abbandono dei suoi. Si tratta allora di un dolore positivo, accettato per obbedienza che redime dal male in vista di un bene supremo. L’esilio volontario, restando nel mondo, è dunque la condizione contemplativa dell’Anima liberata in vita a godere, già e non ancora, i frutti del Regno di Dio. Non è fuga vile e consolatoria, facile scorciatoia di autocelebrazioni, ma è il ricevere in pienezza la brama capace di trasfigurare le cose di quaggiù. L’esilio liberante è vissuto dall’Anima come trasfigurazione della carne accettando le sublimi vette della Storia e della salvezza: il Sinai, il Tabor, il Calvario. L’esilio acquista sostanza e misura infinita. Questo è l’esilio necessario e indispensabile ai nostri giorni per trasformare il mondo dal carcere dell’egoismo fino alla donazione di sé stessi e dei propri talenti. Altrimenti è deserto arido, senz’acqua. Bisogna oltrepassare di slancio l’immane sassaia, il fiume secco della storia. Tendere alla dimenticanza degli effimeri e disastrosi successi, così, per converso, annullare il piatto anonimato. Costruirsi con il legno della croce l’arca di salvezza e stare imperturbabili nelle avversità per lievitare la massa, per essere non pescatori di pesci ma di persone vive. Opporsi allo sfacelo del mondo e delle stagioni cantando inni e ragionando con rinnovata gioia. Riscoprire insieme l’esilio personale, eclatante e silenzioso, laddove siamo messi a vivere. Mettere con un’azione artistica sopra le cattedrali d’Europa, tra le guglie altissime del Duomo di Milano, una piccolissima barca d’oro che salvi l’anima di tutti noi e galleggi sopra questo diluvio impellente perché cessino le guerre e l’immane disastro ecologico. Vedere lassù una crocellina che naviga in bilico tra le nuvole e le pietre, come fosse una meteora fulgente, segno di Speranza e di Redenzione. Esiliata carne, su cui riposa l’anima del mondo, l’Arca della Nuova Alleanza.
Andare per trasalimenti
da quest’esilio ad un altro
costantemente avversi
e fatti salvi
da la mano che sbuca
oltre la ràgia di nuvolette
come fossero il vestito bono
del Pastore
che traccia col rosso
del sangue
l’abbeverata dell’agnelli.