Educare e conoscere, i volti della bellezza
Franco Anellie
Secondo Plinio il Vecchio, Policleto è «l’unico uomo che ha incarnato in un’opera d’arte l’arte stessa»: nel suo Canone, modello e norma della rappresentazione umana, «gli artisti vanno a cercare le regole dell’arte come ci si rifà a una legge». Il bello ideale dell’arte classica scaturisce dal rispetto di precisi rapporti geometrici che, legando organicamente le parti all’intero, generano un effetto di compiutezza e armonia. Ma nel mondo antico si sviluppa ben presto la consapevolezza che la proporzione non è valore in sé, vive bensì in funzione della percezione: se «quelli che modellano un’opera in grande riproducessero la vera proporzione delle cose belle, sappi che le parti in alto ci apparirebbero più piccole del dovuto, le parti in basso, invece, più grandi, perché le une sono viste da lontano, le altre da vicino». L’arte che riesce a mettersi in relazione con il «punto di vista» non sarà più «arte della raffigurazione», bensì «arte dell’apparenza» (Platone, Sofista, XXIII).
Tra gli attributi delle cose belle Tommaso d’Aquino aggiungeva alla proporzione la «claritas». È un’idea che nasce dall’identificazione, cristiana ma ricorrente anche in molte altre religioni, di Dio in un’entità di luce: irraggiando, illumina tutte le cose in grado di partecipare di Lui secondo la propria forma e sostanza. Per quanto emanazione del divino, lo splendore delle cose terrene ha dunque a che fare con la materia di cui sono fatte: tanto le leggi della proporzione vivono in rapporto alle necessità della visione, quanto la luce e i colori che vediamo sono il frutto di specifiche capacità riflettenti.
Non ci sarebbe altresì bellezza senza invenzione: «Il pittore è padrone di tutte le cose che possono cadere in pensiero all’uomo, perciocché s’egli ha desiderio di vedere bellezze che lo innamorino egli è signore di generarle. […] Ciò che è nell’universo per essenza, presenza o immaginazione, esso lo ha prima nella mente, e poi nelle mani». Le potenzialità creative dell’artista-demiurgo descritto da Leonardo nel suo Trattato di pittura hanno l’unico vincolo nella sua tecnica, che dev’essere di così tanta «eccellenza» da generare «una proporzionata armonia».
La bellezza, infine, è nel tempo. Qualsiasi opera, persino quelle cui dopo secoli attribuiamo l’immortalità dei capolavori, ha una propria natura di «prodotto culturale», che riflette le condizioni materiali, soggettive di chi crea e il gusto, la prospettiva, i riferimenti di chi ne fruisce. È una relazione che si realizza nel moto del divenire storico, e di questo registra i sussulti, le inversioni di marcia, i vicoli ciechi, le improvvise e visionarie accelerazioni. Nella nostra società industriale e tecnologica si dilatano le forme e i territori in cui la bellezza può esprimersi, mentre si allarga la platea dei suoi “utenti” in funzione di una riproducibilità potenzialmente illimitata. I consumi culturali generano nuovi modelli, rapidamente li diffondono e altrettanto rapidamente li sostituiscono. Allo stesso tempo, continuiamo a incantarci davanti al Doriforo di Policleto.
Comunque la si intenda, appare chiaro da questi brevi cenni che la bellezza non è immobile. È un valore dinamico che si situa al centro di una serie di relazioni, tra oggetto e punto di vista, soggettività e norma, spirito e materia, storia e tradizione, in un equilibrio che sempre si ristabilisce a testimonianza di una vitalità mai spenta. La bellezza è esperienza permanente, educazione continua. È conoscenza. Per questo, ogni istituzione che abbia nel proprio mandato la produzione e trasmissione del sapere può riconoscere se stessa come “luogo della bellezza”. Per l’Università Cattolica questo è stato vero dall’atto di costituzione un secolo fa a Milano: vicino alla basilica di Sant’Ambrogio, sul suolo dei primi cimiteri cristiani e poi sulle strutture dell’antico monastero, padre Agostino Gemelli ritrovava lo spirito religioso e civile che animava il suo progetto, e Giovanni Muzio la base per una rifondazione rispettosa dei valori simbolici e architettonici del luogo e insieme moderna e funzionale alla nuova destinazione d’uso. I documenti rendono conto di quanta cura, intenzione, instancabili energie fossero profuse fin nei minimi dettagli del concepimento e della realizzazione di uno spazio adeguato a diventare non luogo di distribuzione di competenze, ma di educazione onnicomprensiva della persona. E attraversando il cannocchiale ottico dell’ingresso di Largo Gemelli, aprendo lo sguardo nella luminosa regolarità dei chiostri, entrando nella cappella del Sacro Cuore e negli spazi della biblioteca, risuonano felicemente le parole della Summa theologiae di Tommaso d’Aquino: «Ogni artefice tende a conferire alla sua opera la migliore disposizione, non in senso assoluto, ma in rapporto al fine voluto» (I, 91, 3). Per l’ordinamento, non conta la singola parte, il singolo elemento, ma la mutua collaborazione di tutti al conseguimento dello scopo: «Non solo alla bellezza è dovuto che ciascuna cosa rimanga uguale a se stessa, ma anche che tutte stabiliscano reciproca comunione secondo le proprie proprietà» (Commentario ai nomi divini, IV, 6). In questo solco ci affacciamo al secondo secolo di vita dell’ateneo, consapevoli che la strada che porta alla conoscenza e alla bellezza non è una linea retta, ma piuttosto un’iperbole: tende all’infinito.