Così Dante nella fucina della lingua ha forgiato l’Italia
Fino a metà Novecento un certo numero di non italiani imparava la nostra lingua solo per gustare Dante in originale. A scuola si usava imparare a memoria qualche canto della Divina Commedia, e sappiamo che alcuni “analfabeti” praticavano l’esercizio di memorizzare i passi più famosi del poema. Oggi la memoria è meno coltivata e la nostra lingua così “cantabile” subisce influenze di altre parlate a partire dai termini scientifici e tecnici, non “levigati” secondo il nostro idioma, ma nell’originale. I giovani sono i primi ad allinearsi. Nonostante queste difficoltà, il nostro idioma si colloca al quarto posto tra le lingue studiate nel mondo. Tanti i motivi dell’attrazione per l’italiano. Uno è la ricchezza delle vocali: è infatti la lingua del canto. Il nostro melodramma ha fatto scuola ovunque. Mi fa pensare anche il fatto che Dante non ponga nessun musicista all’Inferno e che la prima anima incontrata in Purgatorio sia quella di Casella, un musico, il quale aveva creato le note per una poesia dell’Alighieri.
Dante è il vero “demiurgo” della nostra parlata, grazie all’intenso lavoro nella scelta dei termini del volgare più adatti alla poesia e al dialogo. Ha “unito” gli italiani attraverso la selezione delle parole più belle ed espressive di ogni regione. Così a lui si deve la peculiarità dell’italiano quale lingua del canto. Ma Dante ha fatto ben di più: ha pensato alla nostra terra in termini linguistici di unità dialogica e all’impero universale (quindi anche all’Europa) in termini politici. Nella nostra storia, l’unità linguistica ha preceduto di secoli quella nazionale: essere italofoni è stato il modo primigenio di essere italiani. Non dimentichiamo questo, perché ha lasciato un’impronta nel carattere nazionale. Dante non ha visto i frutti della sua intuizione.
Al tempo dell'Alighieri pochi affidavano al volgare le proprie opere (il latino era il codice dei dotti), ed egli invece l’ha elevato a lingua “capace di tutti gli usi” affermandolo con la sua “onnipotenza espressiva” (Gianfranco Contini). La base era gettata. Per questo, come afferma Giorgio Barberi Squarotti, Dante è il più moderno dei nostri poeti. La sua lingua, così ricca al confronto di quella di Petrarca, non elegge solo lo stile aulico o tragico bensì unisce nella parlata tutti gli stili, spesso in una sola terzina: tragico o alto, comico o mezzano, elegiaco.
Dante ha riprodotto insieme nel suo poema la vita linguistica del popolo e dei dotti. Però, nella tormentata storia dell’italiano lungo i secoli, il dittatore delle regole, Pietro Bembo, ha invitato i letterati a ispirarsi e “copiare” il dettato di Petrarca, tanto che nel Cinquecento, secolo di sofisticata eleganza, vi furono 167 edizioni del Canzoniere di Petrarca contro le 34 della Commedia. Il Seicento fu il momento di massimo oblìo del Sommo Poeta: solo tre edizioni in un secolo.
Ma Dante fu il precursore assoluto. Intuì la necessità storica degli idiomi “nazionali” di contro all’universalità del latino: sono le lingue romanze a dover procedere (e non a caso, nel XXVI del Purgatorio, Arnaut Daniel si esprime in lingua d’oc). Quando i romantici scoprono Dante come creatore di civiltà, vedono nella sua scrittura la trama dell’unità nazionale. Da parte sua, l’Alighieri non ha avuto la fortuna di vedere realizzato il suo sogno. Alessandro Manzoni ha chiara coscienza del proprio giusto operare in campo linguistico: contemporaneamente all’azione dei politici per l’unità d’Italia, l’autore dei Promessi Sposi si applica a raggiungere una lingua comune. L’edizione del 1840-1842 della sua grande opera (la cosiddetta Quarantana) ebbe sessanta edizioni-pirata: una diffusione nazionale. Come Verdi è la colonna sonora del Risorgimento, così Manzoni è la base unitaria linguistica.
Il riconoscimento all’arte di Dante non può prescindere dal riconoscimento al suo genio nel fare l’Italia della lingua, non attraverso una linguistica artificiosa, ma con la costruzione poetica. Dante non ha operato solo il miracolo di creare “lo stile di una lingua nuova” elevando il volgare a dettato capace “di tutti gli usi”, ma vi ha impresso il suo sigillo, vivificando la parola e rendendola un tutt’uno con la vita e con gli uomini: ieri e oggi.