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Contro la logica, dentro la realtà. Pensare l’infinito

​Siobhan Nash-Marshall

Quando mi avvicino ai limitrofi, ossia ai concetti e alle realtà che stanno subito al di fuori delle nostre capacità intellettive, mi viene in mente la massima di Alexander Pope, «Fools rush in where angels fear to tread», gli stolti si affrettano a entrare laddove gli angeli temono di camminare. Già i concetti elementari sono da affrontarsi con estrema cautela. Come ammonì Tommaso d’Aquino nel De ente et essentia, «parvus error in principio, magnus est in fine» (un errore piccolo all’inizio è grande alla fine), e con i concetti elementari è facilissimo fare dei parvi errores. Quante sono le incomprensioni tra l’Occidente e l’Oriente cristiano dovute al concetto elementare di substantia/ousìa in relazione con la Trinità? E come si spiegherebbero, se i significati dei concetti elementari ci fossero ovvii? Se non avessimo intelletti ciechi come le nottole di giorno, come ricorda Aristotele?
Con i limitrofi è ancora peggio. Questi sembrano, infatti, richiedere alle nostre menti di violare i princìpi su cui poggiano quando pensiamo. Non è a caso che le teorie di Cantor sul transfinito (e quelle di Anassimandro sull’àpeiron) suscitarono scandalo. Quando la mente umana tenta di affrontare l’infinito, urla. Per dare un’idea del perché, prendiamo l’insieme dei numeri pari. Possiamo subito dirne due cose: che esso è una parte dell’insieme di tutti i numeri, e che è un insieme infinito. Dati i princìpi basilari del pensiero umano, dal primo punto dedurremmo che l’insieme dei numeri pari è meno grande dell’insieme di tutti i numeri: l’intero è più grande di una sua singola parte. Il problema è che per questo intero e per questa sua parte, non è così. Come l’insieme di tutti i numeri, l’insieme dei numeri pari è infinito. È grande tanto quanto quello di tutti i numeri. Che cosa dovremmo desumere da questo fatto? Che i princìpi che informano il finito non vigono per l’infinito? O magari, come voleva Cartesio per le sensazioni, che quelli che riteniamo essere i princìpi della nostra conoscenza sono falsi?
Per quanto seducenti, entrambe queste deduzioni sono assurde. La prima implicherebbe che l’infinito non fa parte dell’universo, e che quindi nulla ha in comune con il finito: una realtà che non ha nulla in comune con un’altra non può condividere nulla con quell’altra realtà. Implicherebbe poi (come farebbe anche la seconda deduzione) che l’infinito lo capiamo veramente, cosa questa che contraddirebbe il punto di partenza del­l’aporia che ci pone epistemicamente l’infinito. Cosa ancora più triste: accettare l’una o l’altra di queste deduzioni renderebbe impossibile l’esistenza (e per noi la comprensione) delle realtà finite. Un qualsiasi membro dell’insieme dei numeri pari non potrebbe esistere se non fosse un numero (parte del­l’insieme dei numeri), né potrebbe essere quello che è se non fosse pari (parte del­l’insieme dei numeri pari).
Che cosa possiamo dire veramente, allora, dell’infinito? Semplice: che c’è; che supera le nostre attuali capacità gnoseologiche; che indica una realtà in sé necessaria e che sottostà a tutta la realtà finita; che non può che essere informato da quegli stessi princìpi che informano tutta la realtà; e che non viene informato in modo univoco da questi princìpi. Possiamo solo seguire la via dello Pseudo-Dionigi per parlare dei limitrofi (via seguita, poi, anche da Tommaso): quella analogica.
Quello che vale per il concetto di infinito vale anche per gli altri concetti limitrofi, come quello di eterno, che ci scombina la categoria del quando. Come l’infinito, l’eterno c’è; la sua natura supera le nostre attuali capacità gnoseologiche; indica una realtà in sé necessaria e che sottostà alla realtà finita. L’eterno non può che essere informato dagli stessi princìpi che informano tutta la realtà, ma non ne può essere informato in modo univoco a quello con cui questi informano le realtà caduche.
Come possiamo avvicinarci mentalmente a questa meraviglia? Per farlo, io contemplo uno dei più enigmatici capolavori di Donatello: l’altare maggiore della basilica di Sant’Antonio, a Padova. La statua che sta alla base del grande Crocifisso è una Madonna con Bambino. Come la Messa di Natale, in cui si celebra la nascita di Gesù con la sua morte e risurrezione, l’altare maggiore rappresenta insieme la morte di Gesù e la sua nascita: un tutt’uno temporal-eterno.