Amleto e Prospero, un sogno più vero del reale
«Tuo padre è là, nel fondo del mare, / sono già perle quelli che furono i suoi occhi / e le sue labbra ormai fatte corallo. / Niente di lui è destinato a svanire / ma a subire un mutamento dal mare / in qualche cosa di nuovo e strano».
Ferdinando, giovane principe, si sveglia sulla riva di un’isola sconosciuta. La nave su cui viaggiava è scomparsa tra le onde immense di una tremenda tempesta, scatenata dal mago Prospero, duca di Milano esiliato dal fratello traditore Sebastiano. Siamo nella fase iniziale del capolavoro dei capolavori, La tempesta, con cui Shakespeare inventa un genere letterario e teatrale mai esistito: la commedia romanzesca. In quest’opera assoluta il genio inglese mette in scena, più vistosamente che altrove, il suo sovvertimento delle convenzioni di luogo: la nave naufragata giunge dal Mediterraneo, diretta a Napoli, ma l’isola è nel Caribe, Caliban è un suo nativo, il luogo è indubitabilmente tropicale. È la geografia del sogno.
I versi con cui iniziamo sono il canto di Ariel, demone dei venti, al servizio del potente mago Prospero: tuo padre è affogato, annuncia al giovane principe, perle i suoi occhi e le sue labbra corallo. Allude, misteriosamente, ma non incomprensibilmente, a una trasformazione archetipica, operata dal fondo del mare, dal segreto dell’abisso: corallo e perla sono sostanze simbolo dell’eternità; sia il corallo sia la perla sono vita, non pietre minerali, ed eterne come il diamante, ma nello stesso tempo perdurano. Noi scopriamo quasi subito che la tempesta è un sortilegio di Prospero, tutti coloro che erano a bordo sono vivi.
Ma il canto di Ariel annuncia un evento più misterioso e profondo: dopo la morte avviene qualcosa di nuovo e strano, le labbra e gli occhi definitivamente incorrotti, battezzati dall’acqua possono acquistare durata ulteriore.
«Noi siamo fatti della stessa stoffa dei sogni» culminerà Prospero: “stuff”, “stoffa”, e non sostanza, come generalmente e colpevolmente si traduce e recita.
Shakespeare cambia la visione del mondo, di cui il teatro con lui non è più una rappresentazione, ma anima vivente.
È il supremo di tutti i grandi perché il suo pensiero è assoluto, nato dalla magia dell’azione: Dante, il sommo, è comunque legato a filosofia e teologia del suo tempo e della sua tradizione, Omero è comunque legato alla visione religiosa della Grecia antica, ove non è concessa luce ultraterrena e gli dei agiscono anche a capriccio. Il pensiero di Shakespeare è assoluto, nasce magicamente dal nulla come la voce di Ariel.
Dalla suprema commedia alla massima tragedia, Amleto. Con una didascalia siamo immediatamente nel cuore della situazione: «Elsinore, spalti del castello»: gli spalti sono il punto elevato, al confine con il mondo esterno, il cielo, in alto, e il bosco, in orizzonte. La tragedia di Amleto ha luogo sul tetto del mondo, al confine col cielo e il bosco, e si prefigura come l’angosciata attesa di un’apparizione. E l’apparizione, puntualmente, si manifesta, nella forma di uno spettro.
La verità è detta da uno spettro, prima, poi da uno spettacolo: medesimo etimo, “spector”. Il teatro, come quello che edificò a Londra il geniale William, è davvero, letteralmente The Globe, il Mondo.
di Roberto Mussapi