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verba marzo

«Per fede Mosè rimase saldo, come se vedesse l’invisibile» (Eb 11,17). Mosè, il bambino salvato dalla morte per la fede della madre e dalle acque del Nilo per l’umana pietà della figlia del Faraone, quando, adulto, conobbe la dura sorte dei suoi fratelli, preferì essere maltrattato assieme a loro piuttosto che godere i favori della corte. Egli aveva succhiato la fede del Dio d’Israele dalla sua vera madre, che lo aveva allattato come balia. E proprio di lui, il “salvato”, Dio volle servirsi per liberare gli Ebrei dalla schiavitù. Dal roveto ardente gli ordinò di presentarsi al Faraone per chiedere di lasciar partire gli Ebrei. E la prima reazione di Mosè fu lo sgomento: «Perdona, Signore, io non sono un buon parlatore». Dio lo rassicurò, ma non ritirò l’ordine – «Chi ha dato una bocca all’uomo o chi lo rende muto o sordo? Non sono forse io, il Signore? Ora va’!» – e gli mise accanto il fratello Aronne: «Egli sarà la tua bocca» (Es 4,10-17).
 
Mosè si arrese, appoggiandosi su Dio come su stabile Roccia. I quarant’anni della traversata del deserto furono un’ininterrotta prova di pazienza per l’asprezza del viaggio, ma ancor più per l’incredulità degli Israeliti che ripetutamente si ribellavano, colpevolizzandolo di averli condotti a morire di fame e di sete. Solo per fede Mosè poté procedere, pastore vigilante in mezzo a un popolo reso cieco dall’incredulità. Il suo fu davvero un avanzare come se vedesse l’invisibile, una realtà fortemente creduta e sperata, eppure messa in dubbio da coloro che, con lui, ne avevano ricevuto la promessa. L’incredulità divenne tale che, mentre sul Sinai Dio gli consegnava le Tavole della Legge, essi si fabbricarono il vitello d’oro e si prostrarono davanti a esso. Amara solitudine – oggi non rara – di un credente non più sostenuto dalla fede dei suoi stessi fratelli.
 
Acceso di sdegno, Mosè manifestò una forza insospettata: distrusse l’idolo, «lo polverizzò e ne sparse la polvere nell’acqua e la fece bere agli Israeliti» (Es 32,19-20); ma poi supplicò il Signore di perdonare il grave peccato del popolo di “dura cervice”, risalì sul monte e ricevette di nuovo le Tavole (cfr. Es 33-34). Per fede Mosè continuò a camminare prendendo su di sé le colpe del popolo infedele; per fede accettò di vedere la Terra promessa soltanto da lontano, dal monte Nebo, dove morì. Per fede i suoi occhi vedevano Colui che avrebbe realizzato la vera Pasqua del nuovo Israele, il passaggio alla vera Patria promessa. Ma quanti idoli ingombrano ancora la strada dell’umanità in cammino! Quante tentazioni assalgono i cristiani, ammaliati dalle lusinghe del benessere, del prestigio, del piacere! Occorre una fede forte come quella di Mosè per camminare in mezzo alle foschie del mondo con lo sguardo fisso sulla luce intramontabile del mondo futuro.
di Anna Maria Cànopi​