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partenze 172

È il Giorno del Ricordo, dedicato alle vittime delle foibe e al gigantesco esodo degli istriani e dalmati verso l’Italia, dopo la Seconda guerra mondiale. Viene celebrato un poco in sordina: ancora oggi, non tutti i morti sono uguali davanti alla memoria storica, come viene rappresentata e divulgata nel nostro Paese. Eppure, sarebbe ora che le considerassimo tutte sullo stesso piano, le vittime: tutte insieme in quel pozzo nero del Novecento che le ha inghiottite. Questo pensavo visitando con mia figlia, nella mia città di Padova, una mostra di foto sull’Istria.
Sfilavano davanti ai miei occhi ammirati i pannelli dedicati ciascuno a un luogo, città o paesaggio, da Capodistria a Pirano, da Pola alle saline di Sicciole, a un bellissimo lago nell’interno: monumenti e chiese, palazzi veneziani e leoni di San Marco, umili case di pescatori e piazzette romite, castelli, altane sul mare e paesaggi incantati. E ancora albe e tramonti, resti romani, e tanto, tanto mare... Ma la sequenza delle foto, viste una dopo l’altra, trasmetteva alla fine un’impressione di sottile angoscia, di vuoto, di solitudine: mancava la gente, mancavano gli esseri umani.
 
E furono i pannelli all’inizio del percorso della mostra a offrirci una prima spiegazione. Erano fotomontaggi di documenti d’epoca, riguardanti la vita delle comunità istriane: matrimoni e fogli di congedo militare, festività, occasioni diverse di lavoro e di gioia. Ma le persone, le umili vite delle donne e degli uomini protagonisti di quei documenti, non erano più là, nei luoghi che potevamo ammirare nelle foto successive. Mi strinse il cuore la percezione visiva dell’assenza: quei paesi erano vuoti, gli istriani erano stati scacciati dalla loro terra, dal loro giardino dell’Eden. E mi tornarono in mente tutte le partenze, gli esodi: il fiume incalcolabile di persone (gente comune, gente semplice e attaccata al luogo natale) che la follia dei grandi e dei potenti del Novecento aveva inesorabilmente allontanato dalle loro contrade. Il secolo dei genocidi, si è scritto; ma anche, parallelamente e con conseguenze altrettanto devastanti, il secolo degli esodi forzati, degli espatri, degli abbandoni.
 
Mia zia Henriette, sopravvissuta in modo drammatico al genocidio degli armeni, diceva sempre che non sentiva di appartenere a nessun luogo, che non aveva nessuna lingua materna. E io mi domando: quali saranno state le conseguenze di questi immensi sradicamenti forzati, dagli armeni ai greci, dagli ucraini ai cosacchi, agli istriano-dalmati, sul sistema di valori e di consuetudini, materiali e spirituali, sulle tradizioni, sulla percezione della realtà, sul rapporto con la vita insomma, di tutte queste povere creature di Dio?
 
di Antonia Arslan