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Zumthor e il rito dei campi

​Per comprendere i significati di questa sorprendente opera di architettura, dedicata a san Nicola di Flue, patrono della Confederazione Svizzera, e costruita dall’architetto Peter Zumthor (Basilea, 1943) a Mechernich, in Germania, nella zona del parco nazionale dell’Eifel, è utile richiamare lo spirito che ha motivato la committenza.
La cappella nasce da un ex voto espresso da una coppia di agricoltori del luogo, su un terreno di loro proprietà, come ringraziamento per la lunga vita che è stata loro concessa. L’architetto Zumthor – figura di rilievo per la cultura svizzera e personalità di grande prestigio, esperienza e rigore nei confronti del suo mestiere – ha fatto proprie le richieste avanzate e le ha tradotte in un’immagine originale.
La cappella è stata realizzata con poche risorse economiche e con la partecipazione diretta dei committenti e l’aiuto di alcuni loro amici. Il terreno scelto è situato nel bel mezzo della pianura ondulata della campagna, intervallata da macchie boschive e campi coltivati a grano. Pochi e sparsi sono i segni della presenza dell’uomo, qualche sentiero ai margini dei campi e alcune coperture provvisorie a protezione dei raccolti.
In questo contesto primario, l’architetto sceglie un intervento progettuale “verticale”, una torretta a forma di prisma a base pentagonale, con un’altezza di dodici metri. Ne deriva una presenza monolitica forte, in calcestruzzo, appena segnata nella superficie esterna dalle tracce orizzontali dei corsi del cemento gettati a strati giornalieri di cinquanta centimetri di altezza. Una scelta radicale, questa, che fa dell’immagine finale l’evidenza  del processo di lavoro, quasi a indicare i vari momenti del costruire.
Un’unica porta a forma triangolare, in grado di ruotare parzialmente su se stessa, permette di accedere all’interno della cappella, dove appare uno spazio-percorso che s’innalza a cono fino a un oculo aperto verso il cielo dal quale può entrare la pioggia, che viene poi raccolta al centro e convogliata al terreno circostante.
Dentro questo spazio il visitatore percepisce una grande forza scultorea, data dalle pareti “corrose” con le tracce verticali lasciate dai tronchi degli alberi utilizzati per formare il cassero interno per il getto del calcestruzzo.
Lo spazio sinuoso e labirintico delle pareti ridisegna l’orma del cono, teso fra terra e cielo, dove il vibrare della superficie è sottolineato dalla luce zenitale che evidenzia i rilievi e la struttura del materiale. I tronchi d’albero accostati verticalmente, a forma di tenda, a conclusione del cantiere sono stati bruciati lentamente per tre settimane (secondo l’antico processo di produzione del carbone vegetale) e rimossi per dare forza alla superficie del calcestruzzo annerito, che emana l’odore della carbonizzazione e assume un colore bruno-scuro.
Questa architettura, nata da un pensiero radicale e che porta con sé una forza poetica nell’uso dei materiali, si manifesta come essenziale e possiede un registro linguistico capace di configurare, ancora oggi, presenze evocative che parlano di sacralità e di mistero.
Un piccolo edificio di grande austerità formale, affascinante come luogo di preghiera, che trasla al linguaggio architettonico le ricerche artistiche e concettuali dell’arte contemporanea e le ricerche poetiche, particolarmente vicine alle forme espressive dell’architettura proprie dell’arte povera.