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Washington al tempo della fioritura

​Il volo era in ritardo, come succede spesso. Fra New York e la capitale i piccoli aerei, gli shuttle, vanno e vengono, ce n’è uno all’ora, e al Marine Terminal, l’antico terminal per gli idrovolanti, spira una deliziosa aria anni Trenta, con il caffè e il bricco di panna sempre pronti, un sacco di giornali sulla rastrelliera di cui ti puoi servire a volontà, un vassoio di brioches a disposizione vicino al caffè. E vecchie poltrone molto usate, che fanno venire in mente i film del secondo dopoguerra, con le hostess eleganti strette in tailleur dagli improbabili colori pastello...
Ma quest’anno siamo delusi, il Marine Terminal è chiuso, in restauro. Ci imbarchiamo in modo molto normale, poi aspettiamo sulla pista un bel po’ di tempo, infine partiamo per un volo che è piuttosto breve. Ma mentre l’aereo si abbassava e il panorama sottostante si apriva luminoso, mi apparve come una visione un paesaggio selvatico, antico.
I maestosi meandri del fiume Potomac si attorcigliavano fra l’acqua – che dall’alto sembrava scura e immota – e parti incluse di terra fangosa: colori scuri emergevano appena sopra altri più scuri, e non si vedeva traccia di presenza umana.
Nuvole grigie, statiche e gonfie, si appoggiavano su strisce di un azzurro perlato, trasparente. Eravamo scesi verso sud. Chiusi gli occhi al riverbero forte del sole, e quando li riaprii, eravamo scesi parecchio e la visione era scomparsa, proprio mentre io stavo fantasticando sull’antico fiume Meandro, nella regione della Caria, in Asia Minore, dove fiorirono Mileto e la prima filosofia greca, e sul Potomac dal nome indiano, il fiume che unisce quattro stati americani e lungo il quale sorge la capitale.
E dovunque, dopo, andando all’albergo e alla nostra conferenza in una fiabesca casa privata, alberi e alberi fioriti. È il tempo dei ciliegi, in tutta la città ce ne sono di tutte le dimensioni, ed è come se si passasse di pennellata in pennellata di un rosa timido o ardito, vibrante su mura scrostate, su prode abbandonate, su tutte le realtà poco invitanti della periferia di una grande città: che mi appare in questo preciso momento come una cenerentola vestita di stracci che una volta all’anno si abbiglia di primavera.
Una città che per tutto il mondo rappresenta il centro del potere degli Stati Uniti, che è presente in ogni telegiornale, ogni canale di informazione. Ma noi cosa realmente vediamo? La palladiana Casa Bianca, coi suoi bei giardini pettinati davanti, qualche largo viale percorso da cortei o da automobili strombazzanti, il Pentagono, a volte perfino un museo. Ma chi ci abita poi veramente? A quale popolo appartiene la gente che la fa andare avanti? Le tante etnie di cui è intessuto il variopinto tappeto americano cominciano stabilendosi nei vari Stati, ricompongono comunità coese, coi loro luoghi di culto, i loro riti, i loro capi. E più spesso di quanto crediamo funziona e dà frutto il misterioso equilibrio fra le due lealtà, alla cultura d’origine e a quella nuova.
Così a Washington incontri gli etiopi, gente fiera e cortese, come la dolce Lidya che serve la prima colazione e legge molto per capire il mondo, o la bella Aida dal sorriso smagliante che disse: «Mi chiamo Aida per via di Verdi, ma io sono allegra», e ci portò a vedere la spettacolare pergola di glicini che è l’orgoglio dell’aeroporto Reagan.