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Volterra, felicità etrusca

​Leggo che le piogge hanno smottato le Balze di Volterra. Quante volte ci sono andata! Come se raggiungere quell’aerea città mi divenisse improvvisamente necessario. Girare per botteghe a comperare trasparenti oggetti d’alabastro, camminare per le strade e svoltare verso inaspettati balconi fioriti, cascate di glicini come chiome lussureggianti: e infine approdare in alto, e contemplare i tetti dalla terrazza nascosta di un piccolo albergo, dove in un giorno incantato di luglio mi lavai i capelli, me li asciugai al sole e fui completamente felice.
La prima volta ero all’università e studiavo archeologia. Eravamo un gruppo di amici, studenti come me, con un professore che ci guidava. Le porte etrusche, che meraviglia!

Mi sedetti davanti alla Porta all’Arco, col naso all’insù. Vedevo guerrieri e donne affaccendate, immaginavo le mitiche città della Dodecapoli etrusca, le loro alleanze e guerre, sentivo mercanti e contadini parlare in quella lingua misteriosa che – mi aveva assicurato un vecchio amico di mio padre, un sapiente, vagabondo poeta – somigliava all’armeno antico, il famoso krapar della Messa, dai suoni ieratici e oscuri. L’anno prima avevo conosciuto Massimo Pallottino, il grande etruscologo, alla sua laurea honoris causa all’Università di Strasburgo.

Amava i suoi Etruschi, li conosceva e li rispettava, ma con familiarità: mi raccontò i loro usi funerari e conviviali, le feste, le città, come se passeggiasse insieme a loro, partecipando ai banchetti raffigurati sulle pareti delle tombe di Cerveteri. Mi raccomandò di andare a Volterra. «Là – disse – sentirai l’anima profonda di quel popolo grande e dimenticato, che fu così completamente assorbito dalla civiltà romana da perdere perfino la lingua». E mi parlò con nostalgico rispetto dell’ultimo nobile etrusco, Mecenate, così generoso con gli artisti che il suo nome divenne leggenda.

E quando finalmente ci arrivai, con una corriera ansimante, scoprii la bellezza di un luogo che tuttavia non era soltanto etrusco, ma si rivelava ai miei occhi incantati come un magnifico, magico intarsio delle civiltà successive fiorite intorno alla rocca, austere e drammatiche testimonianze di una vitalità ininterrotta nei secoli. Fiorivano margherite negli interstizi delle pietre antiche, donne stendevano panni colorati al sole: e infine nel museo mi comparve la Deposizione del Rosso Fiorentino, le cui accese tonalità di rosso e bianco, il viola dello sfondo e i movimenti convulsi eppure armoniosi dei personaggi affollati intorno al Cristo morto si fissarono nella mia mente come un riverbero di equilibrio e di controllata potenza. Un sigillo: un’emozione che non avrei più dimenticata.

  di Antonia Arslan