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Un’amica trovata in una torre e perduta in una lettera

di Antonia Arslan​

Conobbi Suse nell’estate dei miei diciott’anni. Ero partita per la Germania appena finito l’esame di maturità, molto malvolentieri. Avrei voluto andare al mare e ritrovare gli amici di ogni estate, a Milano Marittima, dove la pensione Helvezia del signor Alvaro ci avrebbe accolto come ogni anno con lasagne, lambrusco, piadine, bombolotti e l’allegria contagiosa del proprietario, trattore diurno e contrabbandiere notturno.
Ma avevo proclamato troppe volte che imparare il tedesco mi serviva per una scintillante carriera di archeologa, perché mio padre non ne avesse tratto delle conseguenze: che le lezioni della mitica, dolcissima signorina Aurora non erano servite a molto, e che urgeva provvedere alla germanizzazione della figlia. Mi portò un pacchetto di proposte di soggiorni-studio, a Kiel e Lubecca, Bonn e Amburgo... Io li sfogliai con aria un po’ dispettosa (alla quale lui non badò assolutamente) e decisi di evitare accuratamente le università che lui conosceva. E fu così che approdai a Gottinga, scoprendo che era una quieta, intatta cittadina che la guerra non aveva quasi toccato, con un’università del Settecento specializzata in materie scientifiche, soprattutto in fisica.
La casa dello studente che mi accolse si chiamava Fridtjof Nansen Haus, e subito mi piacque, sia perché portava il nome del filantropo norvegese inventore dei famosi passaporti Nansen per i rifugiati della prima guerra mondiale, che avevo tante volte visto in mano ai miei zii armeni, ma soprattutto perché era un’imponente villa privata di un banchiere dell’inizio del Novecento, piena di camini enormi, seggioloni finto quattrocenteschi, velluti stinti e vetrate liberty. Diventata residenza per studenti, la villona sembrava una vecchia signora che si fosse adattata decorosamente a una decadenza inevitabile: ma le stanze erano una diversa dall’altra, le scale maestose e i gabinetti appena decenti.
All’inizio era estate, c’eravamo solo noi studenti stranieri che seguivamo i corsi estivi, ma io mi fermai per il semestre invernale, e arrivarono anche i tedeschi. Mi trasferirono in un ampio stanzone in cima alla torre neogotica, insieme a un’australiana e a Suse, una ragazza di Hannover che proveniva dai territori orientali, da Francoforte sull’Oder. In quei giorni leggevo Madame Bovary, ma non mi piaceva molto. Non volevo tornare a casa, ma mi sentivo malinconica e stanca, e Suse mi mostrò subito una tenera amicizia, mi tenne la mano per ore quando mi veniva l’emicrania. Mi portava grappolini d’uva e arance succose e carissime, mi accarezzava i capelli. Chiacchieravamo per ore, in un fluido, gentile tedesco, bevendo caffè. Mi portò a casa sua ad Hannover, dove vivevano mamma e sorella, tristi creature che preparavano squisite torte, la Käsekuchen e la Marmorkuchen: se ci penso ne sento ancora in bocca il gusto ricco e consolante. Dopo la fine della guerra, profughe miserabili scappate a occidente, erano vissute per un anno in un vagone ferroviario.
Rimanemmo amiche per tanti anni, scrivendoci lunghe lettere; finché un giorno di novembre mi arrivò l’ultima, un addio: mi augurava, quando fosse arrivata per me, una buona morte. Molto romantico, molto tedesco: ma io mi offesi, e non le risposi.
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