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Una luce di rigore nello sfacelo

​Mario Botta

Con i disegni della chiesa di San Giovanni Apostolo sul tavolo e alcune fotografie alle pareti, avevo più volte tentato di abbozzare qualche appunto per segnalare questo bel progetto di Paolo Zermani, ma ogni volta ho desistito dall’intento convinto della necessità di una verifica diretta sul posto. Solo il confronto reale mi avrebbe permesso uno sguardo più libero, meno appassionato.
Conoscevo il progetto di Zermani a Perugia, nel quartiere di Ponte d’Oddi: forte, semplice e affascinante nella sua secchezza espressiva. Conoscevo la qualità dell’autore e la sua capacità di cogliere il confronto-scontro fra il manufatto e il contesto dell’intorno. Ma le immagini dello sfacelo pianificatorio di quel paesaggio mi apparivano degne di periferie d’altri continenti, non certo di un comparto pregiato della vecchia Europa. È proprio questo aspetto del costruire una nuova chiesa a confronto con le frange periferiche di recenti urbanizzazioni che mi ha motivato ad annotare alcune osservazioni.
Il caso di Perugia, purtroppo, è simile a molti altri che troviamo sparsi nei territori come risposta alla crescita urbana. Ma se i risultati dei “piani regolatori” nell’occupazione del suolo sono simili a quello che vediamo a Ponte d’Oddi, c’è davvero di che preoccuparsi.
Lo squallore d’insieme che coglie lo sguardo con palazzine, case e villette, strade e giardini disseminati a caso e sorretti da una miriade di muri, è quanto di peggio merita una condizione geografica naturale ancora carica di significati, offerti dalla orografia ondulata. Dobbiamo dunque dire un “no” a questi piani regolatori e un “sì”, invece, a possibili “progetti strategici” ai quali si dovrà delegare, oltre alla ricerca di qualità dei manufatti, anche la responsabilità di dare ordine agli spazi liberi contigui. In questa prospettiva il progetto della chiesa di San Giovanni Apostolo ha tutte le potenzialità richieste. Innanzitutto perché l’architetto ha saputo farsi carico dell’orografia del sito, con i problemi derivanti dall’inclinazione del terreno, che ha trasformato in una promenade di raccordo tra le due quote diverse che configurano due piazze-sagrato, nella parte alta come ingresso alla chiesa feriale e, nella parte bassa, come accesso principale alla navata.
Ma, al di là della sapiente organizzazione altimetrica con l’invenzione progettuale del quadrilatero della cappella inserita nel volume del parallelepipedo della chiesa, sorprende l’omogeneità del trattamento dei materiali, con la sola muratura di cotto lasciata a vista che presenta un’immagine rigorosa e severa, scevra da preziosismi costruttivi. Dentro la potente navata l’atmosfera è tale da indurre al silenzio e ricordare condizioni del grande passato, con l’umiltà dei materiali tipici dell’architettura romanica e monastica. Questa chiesa in un contesto di periferia sa parlare di un rigore culturale ormai smarrito nella prassi quotidiana, e sollecita noi, poveri architetti, a chinarci sui principi fondativi – luce, gravità, materiali – che motivano le ragioni d’essere del nostro mestiere.
Nel disastrato assetto pianificatorio ben vengano allora interventi forti come questa chiesa a Perugia, dove la qualità architettonica risuona come continuità di una storia millenaria e, nel contempo, come un severo monito contro la banalizzazione espressa dalla collettività rispetto all’intorno.