Luoghi dell' Infinito > ​Tra Istanbul e Pellestrina il ponte è una crema deliziosa

​Tra Istanbul e Pellestrina il ponte è una crema deliziosa

​Era un giorno nebbioso di fine gennaio. Eravamo tanti, curiosi e allegri, in attesa di assaggiare i cibi d’Armenia. Isolato fra i campi, il grande ristorante con la copertura di segmenti bianchi d’acciaio ci apparve come un animale preistorico spiaggiato nel mezzo della campagna trevigiana. Dentro, le luci scintillavano, la bandiera dell’Armenia oscillava nei suoi colori brillanti: rosso del sangue, azzurro del cielo, arancione dell’albicocca.
C’era gente da Milano e da tutto il Veneto, e l’atmosfera era frizzante; ma eravamo anche affamati, e pronti a giudicare il gusto e la novità delle portate. E aspettavamo la grande sorpresa, il vino d’Armenia: quello che da millenni, ininterrottamente, si coltiva nella pianura dell’Ararat, là dove all’inizio di tutto approdò l’arca di Noè, e in tempi recentissimi un brillante archeologo, Gregory Areshian, ha scoperto la pressa da vino più antica del mondo, vecchia di circa seimila anni.
Arrivò il vino, arrivò il cibo, e per qualche minuto nella grande sala regnò quel silenzio speciale di inizio pasto, quando i bocconi scendono, gli occhi sfavillano contenti, il primo sorso rinfresca la gola. E tutti attendono quello che seguirà. Fra salsine speziate tipicamente mediorientali e una zuppa di lenticchie molto aromatica, la cena procedette piacevolmente, mentre amabili chiacchiere si intrecciavano fra i tavoli: chi proponeva ricordi di viaggi, chi memorie di cibi lontani...
All’improvviso sentii un sussurro gentile. Alzai gli occhi e vidi un viso arguto e simpatico che mi osservava. «La prima volta che ho mangiato il babaganush fu a Istanbul», disse sorridendo la proprietaria di quel viso, e poi, vista la mia immediata curiosità, proseguì con tono sognante: «Nel giugno del lontano 1972 arrivammo là a bordo del nostro camper Volkswagen, con cui avremmo continuato negli anni seguenti l’esplorazione del Medio Oriente. Avevamo già fatto scalo a Istanbul durante il viaggio di nozze, ma questa fu la nostra vera scoperta della città. Una sera cenammo nel ristorante del Bazar egiziano, quello delle spezie, che aveva le finestre affacciate sul ponte di Galata, ed era gestito da due sorelle francesi che avevano trovato la loro seconda patria nella Turchia di allora. Sul tavolo, due tazze: una conteneva una salsa rossa piccantissima, l’altra una cremina grigiastra dall’aspetto poco invitante. Ma l’assaggio fu amore! Chiesi la ricetta, che da allora fa parte del ricettario familiare...».
Era il babaganush, la mitica crema di melanzane leggermente affumicate che non manca su nessuna tavola mediorientale, e la signora Paola era convinta di aver fatto una bellissima scoperta. Ma il suo entusiasmo (non certo il suo gusto per la “cremina”) si smorzò subito quando ne parlò in ufficio, a Venezia. Un collega che veniva da Pellestrina, l’isola lunga che prolunga il Lido, baluardo della città contro il mare aperto, guardandola come se fosse un marziano, le disse stizzosamente: «Le “pape” hai mangiato! A casa, mia mamma le prepara da sempre!».
E io pensai, ancora una volta, a quanto il cibo racconta di un popolo: è a Pellestrina che venivano confinati dalla Serenissima i prigionieri provenienti dalle terre dell’impero ottomano, ed è proprio là che l’umile crema di melanzane trovò spazio, e divenne un tassello di storia, un dono orientale.

di Antonia Arslan