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Sotto le mura di Gerusalemme le voci che invocano il cielo

​Andavamo, pellegrini un po’ stanchi, verso la porta di Giaffa. Le mura di Gerusalemme si avvicinavano, splendenti.
E con esse i ricordi di lontane letture e gli echi dell’aura sacra e solenne che circonda questa città simbolica e contesa. Per me personalmente venivano a sovrapporsi e a confondersi la realtà di questo viaggio e le memorie di quello compiuto con mio padre tanti anni prima per visitare i parenti di Siria e del Libano. Fu, allora, un’immersione nella realtà degli armeni del Levante, come un lacerante ricongiungerci alle radici della nostra famiglia decimata e dispersa per il mondo.
Riemergono le figure dei cugini di Aleppo e di Damasco, coi loro grandi occhi scuri, i nasi importanti, le camicie di seta verdina; e delle zie affaccendate coi vassoi di prelibate salsine e di dolcetti squisiti. Tutti parlavano l’armonioso francese d’Oriente, modulato su toni un po’ languidi, e tutti finivano per ricordare i giorni del lutto e la tragedia del 1915.
Entrammo nel quartiere armeno dalla stretta via del Patriarcato, in mezzo al clamore dei taxi e dei turisti che si seguivano in fila indiana, occhieggiando le vetrine in cui brillavano i vivaci colori delle famose ceramiche, create dagli eredi delle celebri manifatture di Kütahya, fuggiti dall’Anatolia dopo il 1915. E là ci fermammo incantati, guardando i piatti, le mattonelle coi deliziosi disegni, gli svariati oggettini creati dalla fantasia del ceramista, che cominciò a spiegarci i colori e i simboli con una coinvolgente passione. Fu lui a farci entrare nell’affascinante e misterioso mondo del quartiere armeno. Il giorno seguente seguimmo il suo dotto amico, un gentile Virgilio dal gilè rosso e i capelli arruffati, che attraverso una piccola porta ci portò a visitare le corti e le piazzette, le cappelle e le chiese, i balconi fioriti e le pergole segrete che si inanellano all’interno delle mura, fra le grida dei bambini e le voci delle madri. Sulle antiche muraglie spiccano le croci di pietra della tradizione, murate nei secoli; i vasti spazi della biblioteca profumano di studio riposato e sereno, e gli scaffali traboccano di tutte le pubblicazioni, i libri, i giornali stampati in armeno con fervore e passione, secolo dopo secolo, da Venezia a Madras, dalla Persia a Tiflis.
Il sole era alto; il silenzio, screziato solo di voci. Ma al di là di un’ultima porta di difficile accesso si apriva una lunga corte, con uno spazio centrale dove un albero svettava solitario, e un portico a volte tutto intorno, sul quale dava un grande numero di stanzette: la casa degli orfani approdati a Gerusalemme dopo la tragedia. Là ci venne incontro un cordiale architetto con un fascio di progetti in mano, incaricato di trasformare quel luogo in un moderno museo. Trascinata dal suo entusiasmo vedevo anch’io il museo  multimediale, i turisti, la folla; ma poi mi avviai lungo il portico e notai sul muro interno molte iscrizioni, fitte fitte, tracciate da mani incerte. E risentii le flebili voci dei bambini sopravvissuti: “Toros Harutiunian di Zeitun, nato nel 1906, qui, 1922”; “Vardan Hovagimian dalla provincia di Van, villaggio di Shushants, nel gennaio 1922, orfanotrofio Araradian”: non siamo invisibili – dicevano – siamo sopravvissuti, vogliamo vivere. E davanti a quelle voci lontane mi si aprì il cuore di speranza e di orgoglio.

di Antonia Arslan