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Sogni di gloria a Roma

​Ecco una vicenda che sarebbe piaciuta al Tolstoj di Guerra e Pace perché è la esemplificazione quasi didattica delle umane ambizioni quando vengono travolte dalla imprevedibilità e dalla fatalità della storia; pensiero dominante di quel grande libro.
L’argomento è il Palazzo del Quirinale, un luogo che (cacciato in esilio il papa Pio VII Chiaramonti, abolito il potere temporale, dichiarata Roma “libera città imperiale”) doveva diventare la reggia di Napoleone Bonaparte imperatore dei Francesi, re d’Italia e autocrate di mezza Europa.
Progettista dell’impresa (ristrutturazione e anzi reinvenzione del Quirinale da dimora del potere clericale a sede del laico governo imperiale nato dalla rivoluzione) è Raffaele Stern, un tedesco naturalizzato romano che aveva iniziato la sua carriera come architetto dei Palazzi apostolici. Consigliere aulico per l’arredo artistico è Antonio Canova, arbitro del gusto e autorità indiscussa nel campo delle arti nell’Europa di quegli anni, da Parigi a Londra a San Pietroburgo.
Il Quirinale doveva assumere un carattere eroico degno del suo grande inquilino e per questo artisti geniali come Bert Thorvaldsen e Felice Giani furono chiamati a moltiplicare nelle sale scene di vittoriose campagne militari e di gloriosi trionfi. Non c’erano, non dovevano esserci, problemi di spesa. Il Tesoro francese aveva finanziato il progetto per la cifra vertiginosa di un milione di franchi-oro.
Penso all’autunno del 1812 quando tutto il Quirinale era un ronzante cantiere gremito di tappezzieri, di mobilieri, di pittori, di stuccatori, di decoratori e nessuno sapeva (non Raffaele Stern, non Canova, non Felice Giani, non Thorvaldsen), nessuno poteva immaginare che, iniziata la campagna di Russia, dopo Borodino, dopo l’incendio di Mosca, quella di Napoleone era ormai una stella spenta che mai avrebbe attraversato il cielo di Roma.
Il luogo più importante del Quirinale diventato reggia napoleonica, aveva da essere la stanza dedicata al riposo dell’imperatore. Incaricato di realizzare il fregio in gesso lungo trenta metri e alto uno, destinato a decorare l’ambiente, fu il giovane scultore spagnolo José Álvarez che, formatosi a Parigi nel circolo di David e di John Flaxman, ebbe la fortuna di essere protetto e raccomandato dallo stesso Canova, il principe degli scultori, l’artista più amato da Napoleone.
Dalla stima e dall’amicizia di Canova nacque per José Álvarez l’occasione della vita. A metà marzo del 1812 gli arriva l’incarico di eseguire, per il compenso di quattromila franchi, il grande fregio oggi custodito nei depositi dei Musei Vaticani. Il tema iconografico che abita l’opera di Álvarez è il sogno, non quello dei comuni mortali ma quello che ha visitato i grandi della storia e del mito. E quindi il sogno di Cicerone che prevede la gloria universale di Augusto imperatore, la notte degli opliti spartani alla vigilia delle Termopili e quella di Cesare prima di Farsalo, l’ombra di Patroclo che appare in sogno ad Achille.
L’Antico, nei gessi di Álvarez, è evocato prima ancora di essere rappresentato. L’eleganza neoattica delle figurazioni, appena toccate dalla “natura” canoviana, ci porta in un universo visionario e misterico, in sintonia con la mitografia nordica che negli stessi giorni Ingres metteva in figura nel soffitto, con il dipinto Il sogno di Ossian, oggi custodito nel museo di Montauban.
Quarantamila franchi-oro era costata la camera da letto dell’imperatore, fra i compensi pagati ad Álvarez e a Ingres, i marmi preziosi selezionati da Carlo Albacini, gli arredi forniti dal “mobilier nationale”. Napoleone non mise mai piede nella sua reggia romana. Dopo la rotta della Beresina, dopo la sconfitta nella battaglia di Lipsia e l’esilio all’isola d’Elba, l’imperatore aveva ben altro cui pensare. La camera da letto progettata per lui fu in essere per pochissimi anni.
Probabilmente già fra il 1817 e il 1820 i gessi di Álvarez erano stati trasferiti nei depositi Vaticani. Il mondo era cambiato. José Álvarez, come Antonio Canova, come Raffaele Stern, fu testimone della storia che girava sul suo asse. Quando Pio VII, tornato dall’esilio, riprende possesso, nel 1815, del suo Palazzo, tutto rientra nel prescritto ordine. La veste imperiale del Quirinale deve essere smantellata e risacralizzati gli ambienti. Il solerte Raffaele Stern, restituito nell’incarico e nello stipendio di architetto dei Palazzi apostolici, provvede con zelo ed efficacia.
José Álvarez, l’artista che ebbe in sorte di accompagnare con le sue opere il sonno dell’imperatore, sopravvisse, nella Roma della Restaurazione, all’eclisse delle glorie napoleoniche. Anche se il re di Spagna Ferdinando VII lo nominò “primero escultor de Camera”, il nostro fece fatica a campare la vita. Nel 1825 tornò in Spagna dove morì due anni dopo in totale povertà al punto che ai tre figli rimasti orfani dovette provvedere la beneficenza del re.
Così vanno le vite degli uomini che la storia travolge e devasta. A noi restano, nei ventiquattro pannelli in gesso che i depositi dei Musei Vaticani custodiscono, la memoria di un sogno imperiale dissolto e la gratitudine per l’artista che a quel sogno ha saputo dare immagine.

di Antonio Paolucci