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Se l’infinito ha l’odore delle stalle

​In una quotidianità che, di necessità, deve accollarsi e organizzare il finito, definito, caduco, accettandone limiti e gratificazioni, riconoscendone senso e valore, dove collocare l’infinito? La tensione a una compiutezza che ci pervade ma non trova soluzione nel tempo e nello spazio dell’umano operare?
L’eremitaggio e la clausura si pongono nudi di fronte all’infinito, del proprio limite fanno una postazione esposta: esploratori in solitudine già oltre confine. I monasteri, luoghi in cui la preghiera scandisce e organizza un quotidiano perpetuo, vigilano a garantire che la frontiera sull’infinito resti aperta, accessibile. Eremiti e monaci sono indispensabili a una civiltà che non costringa la condizione umana, opprimendola, in dimensione utilitaristica ed esclusivamente materiale.
Se devo identificare un luogo, anche solo un pertugio, aperto sull’infinito che non sia sacro, etimologicamente separato, ma usuale, domestico, non ho dubbi: le stalle. In tutta la mia vita adulta ho pascolato parole come i miei vecchi pascolavano armenti. Le ho vigilate, custodite, curate e fortificate, le ho difese all’occorrenza. Ho allevato pensieri, li ho nutriti, selezionati. Ora nella mia vecchiaia allevo cavalli.
Nell’orizzonte tradizionale, nella quotidianità delle stagioni che si rinnovano anno dopo anno, il calendario delle festività religiose e sociali si apre con la benedizione delle stalle nel giorno di sant’Antonio. Per la maggior parte della mia vita solo una triste ricorrenza. Sono la prima generazione della mia famiglia cresciuta nella modernità, senza animali, lontano dai pascoli. Non fronteggio un giorno dopo l’altro la variabilità, l’inclemenza del meteo, c’è sempre un tetto a proteggermi dalle intemperie.
Il passaggio è stato improvviso brutale netto. Il 17 gennaio 1953 mia madre seppelliva mio padre morto d’improvviso, subito dopo avrebbe di necessità venduto tutte le bestie e, mentre venivo al mondo, sarebbe mutato l’orizzonte del nostro vivere. Da pastori allevatori in un ordine naturale duro, anche spietato, ma gratificato da una libertà dell’essere e una pienezza del fare che nessuna specializzazione in un ordine artificiale può nemmeno più immaginare, ci siamo ritrovati al margine di una società urbana galvanizzata dal boom economico in atto.
Inserviente, lavapiatti, aiuto cuoca poi cuoca, questo il curriculum di mia madre, determinata da un unico proponimento capace di sopportare ogni pena: garantire ai propri figli l’accesso, tramite l’istruzione, al mondo del privilegio, la dimensione urbana.
Ha vinto la sua scommessa, ne abbiamo guadagnato in benessere e comodità. A onor del vero in questi ultimi anni il benessere è stato ben ridimensionato da un insieme di fattori che chiamiamo crisi. Quanto alle comodità, è iniziata una fase di rigetto per eccesso, una questione di salute fisica e mentale.
E così, mentre l’esplorazione del cosmo allarga lo sguardo dell’uomo nello spazio, di nuovo festeggio sant’Antonio abate, il Grande, tornato con un carico di preghiera, come icona, da un monastero ortodosso a vigilare un arcaico accesso spalancato sull’infinito nella dimensione del tempo. Il cielo, la terra, le cose visibili e invisibili. Da una stalla di montagna salga a Dio la lode.

di Giovanni Lindo Ferretti