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San Matteo e il fuoco della verità

​di Maria Gloria Riva

Nella luce notturna di uno studiolo, forse lo stesso al quale il dipinto era destinato, Savoldo, dipinge un san Matteo estatico dall’abito rosso fiamma, intento alla contemplazione di un angelo.
La tela, riservata probabilmente alla devozione privata, secondo alcuni troverebbe il suo committente entro la cerchia degli ufficiali della Zecca di Milano. Non fa meraviglia. San Matteo, chiamato da Gesù mentre sedeva al banco delle imposte, è patrono dei banchieri e dei contabili. La professione di esattore delle tasse, non meno di oggi, era tanto deprecata che nessuno fra gli evangelisti, narrando la vocazione dell’apostolo, lo chiama per nome: per tutti è Levi, il figlio di Alfeo. Lui solo, nel suo Vangelo, confessa con umiltà che il pubblicano conquistato da Cristo era proprio l’ottavo apostolo dell’elenco evangelico: Matteo.
Nella tela fanno bella mostra di sé, con un verismo tipicamente lombardo, la lucerna con la fiamma trepidante, il calamaio, il pennino e il foglio, sul quale l’apostolo quasi sotto la dettatura dell’angelo scrive i suoi loghia. È Papia da Gerapoli (II secolo) che ci informa dell’esistenza di detti (loghia appunto) di Gesù in lingua ebraica (probabilmente aramaica) raccolti dall’apostolo Matteo. L’angelo, uomo alato, fa riferimento alla visione dell’Apocalisse (Ap 4,6-8), dove quattro figure alate, ritenute le rappresentazioni simboliche degli evangelisti, confessano nel mondo la verità del Cristo come il Santo di Dio.
Il notturno fiammeggiante, che anticipa di un secolo i bagliori caravaggeschi, fa da sfondo alla vita dell’Apostolo narrata dalla Legenda Aurea. San Matteo evangelizzò l’Etiopia, regione che già nel nome possiede un rimando al fuoco. Etiope significa, infatti, dal viso bruciato. La piccola scena a destra sembra riferirsi all’ospitalità che Matteo ricevette nella città di Nabadar, grazie all’eunuco della regina Candace, battezzato dal diacono Filippo. Qui il santo neutralizzò l’attività malefica di due maghi, suscitando grande meraviglia. Qui, mentre predicava, illustrando la bellezza del Paradiso, gli giunse notizia della morte del figlio di Egippo, re etiope. Nessuno dei Maghi di corte era riuscito a salvarlo così l’eunuco pregò san Matteo di intervenire. Per la sua preghiera il ragazzo risuscitò e il re, credendolo un figlio degli dei, lo colmò di beni. Matteo, uomo tutto d’un pezzo, capace di prontezza e fedeltà, rifiutò ogni regalo e chiese che tutto fosse impiegato nella costruzione di una chiesa ove egli sostò per quasi trent’anni evangelizzando il popolo. Tutta la famiglia di Egippo si convertì al punto che la figlia Eufigenia decise di consacrarsi a Cristo. Quando a Egippo successe Irtaco, questi volle prendere in moglie la bella Eufigenia; Matteo però si oppose invitando il futuro sovrano alla Messa domenicale. San Matteo, durante l’omelia, se da un lato esaltò la vita matrimoniale, dall’altro citò una legge in uso tra gli etiopi secondo la quale un servo, che avesse desiderato possedere la moglie del re, sarebbe stato passibile di morte. A maggior ragione come poteva Irtaco prendere in moglie una fanciulla già promessa sposa al Re dei Re? Offeso da tanta audacia il regnante mandò i suoi sicari a trafiggere Matteo di spalle, davanti all’altare. Eufigenia rimase però irremovibile cosicché Irtaco, vistosi rifiutato, volle incendiare il monastero che la accoglieva. San Matteo apparve allora alle monache e diresse le fiamme verso il palazzo regale.
Al martirio dell’apostolo sembra riferirsi la scena sullo sfondo a sinistra. La radiografia dell’opera ha rivelato la presenza di una donna in primo piano, forse la stessa Eufigenia, conquistata dalla predicazione del santo. Nel contrasto tra il verde-azzuro dell’abito angelico e la porpora rossa dell’apostolo, l’artista nasconde il rimando alle due nature di Cristo, divina e umana, che il Vangelo di Matteo afferma senza esitazioni. Il testo infatti inizia con la genealogia di Gesù, garanzia di umanità, e termina con l’ascensione di Cristo al cielo e la divina promessa di essere con noi ogni giorno.