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PARTENZE 175

​C’è un quaderno a righe dalla copertina di stoffa grigia e dal taglio di colore rosso, bellissimo, con le pagine interne di robusta carta antica, liscia al tatto, che mi accompagna da sempre. Negli anni ci ho trascritto soprattutto poesie; e poi ho tentato qualche traduzione, qualche riflessione. Ogni tanto si perde fra le mie carte o finisce in un cassetto, e mi sembra di dimenticarlo; poi riaffiora, imprevisto: e di solito succede quando mi “serve” qualche cosa che c’è nascosto dentro.
Non lo vedevo da un bel po’, ma ieri il suo dorso di stoffetta grigia mi è ricomparso davanti, infilato fra i libri di uno scaffale. Lo prendo in mano, e si apre da solo ai suadenti versi iniziali di un celebre addio di Kavafis, pazientemente ricopiato a mano in un’estate tedesca di tanto tempo fa, Il dio abbandona Antonio: una poesia triste e profetica, che in quegli anni lontani mi riempì di feconda malinconia. Kavafis (1863-1933), che scrisse così poco in un affascinante greco di sua creazione, è il poeta di Alessandria, la città di Alessandro, metropoli cosmopolita dove si mescolavano tutti i popoli del Mediterraneo e si parlavano tutte le lingue: misteriosa, ambigua e solare, antica e sempre nuova. Nei suoi bassifondi e nei suoi vicoli egli trascorse una vita oscura. Ma per Marco Antonio è la città di Cleopatra, la regina d’Egitto, l’ultima dei Tolomei.

Lei è la donna che ama, e gli ha dato dei figli, ma è anche colei che ha perduto assieme a lui la battaglia di Azio, di fronte al trionfante Ottaviano. È allo sconfitto Antonio che la città elusiva si sottrae. Lui non è più degno di lei, della sua femminile essenza divina. E allora il poeta lo invita a mostrarsi coraggioso, accettando di essere abbandonato: «Come pronto da tempo, come un prode, / salutala, Alessandria che dilegua. / Non t’illudere più, non dire: “è stato / un sogno”, oppure “s’ingannò l’udito”: / non piegare a così vuote speranze», cantano i versi, disperati, da innamorato. Perché anche a lui, Kostantinos Kavafis, la sua città sta sfuggendo, nello scorrere della vita, negli inganni della fantasia che si è dispersa dietro a luccicanti chimere. La forza che chiede ad Antonio è quella che chiede a se stesso: «Come pronto da tempo, come un prode, / come s’addice a te, cui fu donato / di una città sì grande il privilegio, / va risoluto accanto alla finestra: / con emozione ascolta e senza preci, / senza le querimonie degli imbelli, / […] e saluta Alessandria, che tu perdi».

Il poeta pitocco e il grande Antonio sono soli davanti alla perdita delle illusioni e alla morte; ma il povero greco di oggi e il nobile romano condividono qualcosa che è più grande di loro: la città del grande Alessandro, icona e specchio reale di quella visione del mondo che tanto mi affascinava in quegli anni lontani.

di Antonia Arslan