Luoghi dell' Infinito > L’oca di Göttingen e la forza di Beethoven

L’oca di Göttingen e la forza di Beethoven

​Non capivo quasi niente di musica, a diciott’anni, e i pochi concerti ai quali mio padre mi aveva trascinato mi avevano lasciato piuttosto indifferente. Le lezioni di piano erano durate qualche mese solo per la gentilezza pacata dell’insegnante, una delle figlie del nostro medico di famiglia, sempre additate ad esempio a noi distratti cialtroni. Tuttavia ben presto finirono anche quell’inutile esercizio e le corse disperate per la città per non arrivare mai puntuale: il fuoco dell’arte musicale non soffiava in me, mi disse papà rassegnato, dopo un colloquio con l’amabile Renata, che aveva allargate le braccia in segno di impotenza.
Al liceo mi innamorai del greco, della poesia e delle canzoni, ma la musica restava per me la grande assente. Eppure era in agguato, per le sue vie misteriose. Dopo la maturità andai in Germania, a un corso estivo per imparare il tedesco, che mi pareva assolutamente necessario se volevo fare l’archeologa. La città di Göttingen non era stata colpita duramente dai bombardamenti, era tranquilla e raccolta attorno alla sua celebre università, con piazze quietamente borghesi, un grande magazzino dove scoprii le scale mobili, la celebre fontana della Gänseliesel (la Lisa con l’oca), quartieri periferici immersi nel verde. Noi ragazzi del corso imparavamo poco ma ci divertivamo molto. Venivamo da molti Paesi, e di italiani eravamo solo in quattro: io, una riservata ragazza romana, uno studente di medicina chiamato “il coccodrillo”, al quale la pronuncia tedesca riusciva ostica come il Codice di Hammurabi, e Bruno, un ragazzo di Milano. Eravamo tutti alloggiati nella Nansenhaus, una residenza studentesca che portava il nome del celebre filantropo Fridtjof Nansen, l’inventore dei passaporti che dopo la Prima guerra mondiale venivano dati a tutti coloro che non avevano più patria. Provavo un vago senso di gratitudine: anche una mia zia aveva il passaporto Nansen, ed era stata protetta da quello. Ma ricordavo con una strana emozione il momento in cui finalmente ne ebbe uno vero, libanese. Mi disse: «Ci andrò subito. Adesso anch’io ho una patria...».
E fu là che scoprii la forza della musica. Ogni settimana c’era un pomeriggio musicale. In una stanza, la cui porta veniva tenuta chiusa dopo l’inizio, si ascoltava musica classica: alcuni dischi, mai troppi, indicati in un foglietto-programma, con un intervallo per il caffè e la sigaretta. Come in un vero concerto. Bruno e io ci eravamo un po’ innamorati, e ci piaceva stare insieme, seduti molto vicini. Andammo a uno dei pomeriggi musicali, e là mi si aprì improvvisamente – e inaspettatamente – la sontuosa realtà dell’esperienza dell’armonia sonora: un percorso che scuote e confonde, crea tensione e la scioglie, dà felicità e struggente malinconia, esalta, commuove e purifica.
Era il Concerto per violino e orchestra di Beethoven che s’insinuò nella mia mente ancora infantile, mi screziò di colori che avrei tanto voluto fissare nel ricordo. Avrei voluto comprendere quelle strutture meravigliose che si incastravano una nell’altra in aeree architetture che riempivano le emozioni e il pensiero: ma questo non mi fu dato, la memoria che ho per i versi non mi è stata concessa per la musica. E così rimango un’umile, incantata fedele del mondo dei suoni, seduta sul gradino davanti alla porta.