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L’ippogrifo, la Rete e la mappa

​Che cos’è un atlante, e perché si chiama così? Intorno al 1570 Antonio Lafrèri edita a Roma in volume le sue Tavole moderne di geografia raccolte et messe secondo l’ordine di Tolomeo, la prima collezione cartografica, sul cui frontespizio appare, a reggere il globo terrestre, la figura del titano Atlante. La sua presenza significa che il Lafrèri sa bene di agire esattamente come il negromante dallo stesso nome che, nell’Orlando Furioso, prende il volo sull’ippogrifo: come il mago anche il Lafrèri è consapevole di imprigionare in un magico, poderoso edificio (quello rappresentato sulle carte) tutto quel che esiste, per preservarlo dal tempo, cioè dalla vita che, come dicono i tedeschi, fa male alla vita. Esattamente come nel poema dell’Ariosto Atlante imprigiona nel suo castello Ruggero per preservarlo dalla sicura morte che egli incontrerebbe se continuasse ad andare in giro duellando con tutti quelli che incontra.
Ha scritto Walter Ong che la scrittura è una maniera di preservare il suono trasformandolo in silenzio. Tutta la modernità si fonda su tale riduzione a silenzio del suono della vita. Lo stesso Ariosto, in una sua celebre satira, dichiara la propria inclinazione ad andar «cercando con Tolomeo» piuttosto che in corpore vili «il resto della Terra». Confessa dunque la propria familiarità con il documento cartografico, apprezza la funzione dispensatoria della mappa rispetto alla concreta e faticosa (quando non pericolosa) perlustrazione, all’effettiva pratica di questa: «e tutto il mar, senza far voti quando /lampeggi il ciel, sicuro in su le carte / verrò, più che sui legni, volteggiando».
Chi farà in futuro la storia della digitalizzazione della realtà dovrà dedicare particolare attenzione all’atto cartografico, decisivo per il processo della messa in sicurezza di quel che i fenomenologi chiamerebbero il-mondo-della-vita all’interno della prigione di Atlante. La cui più potente arma è un libro che ha il potere di far sì che il mondo «al falso più che al ver si rassomiglia»: un libro di incantesimi, dicono al riguardo le note, ma che in realtà altro non può essere che la Geografia di Tolomeo, prototipo di tutti gli atlanti di questo mondo. Al punto che colui che nell’Orlando lo possiede e se ne serve darà il nome a tutte le raccolte cartografiche che verranno successivamente.
L’ippogrifo che Atlante cavalca è invenzione ariostesca anch’esso, un animale per metà cavallo e per metà uccello, di cui ha anche la testa. È un essere ibrido, un’entità composita la cui forza dipende proprio dal suo carattere atopico, in grado di fondere generi e categorie separate se non opposte in natura. Una creatura che proprio per la sua duplice natura è capace di dominare dall’alto l’intero funzionamento del mondo. Esattamente come oggi è in grado di fare la Rete, dispositivo al cui interno, come nell’ippogrifo, i contrari e gli estremi si toccano, quel che è materiale si confonde con l’immateriale. E che da qualche tempo esibisce immagini geografiche molto diverse, anche quando in apparenza analoghe, rispetto a quelle disponibili prima del suo avvento. Ciò dipende dal fatto che la comprensione di una mappa implicava in passato la mediazione mentale tra due sguardi ovvero tra due discorsi, tra il punto di vista cui la costruzione dell’immagine obbediva e quello che dipendeva dalla nostra posizione: una mediazione che, a farvi caso, non produceva soltanto l’idea di quel che era fuori di noi ma anche quella che ci permetteva di comprendere – relazionalmente – dove noi stessi eravamo, di individuare il nostro stesso ambito domestico. Come l’Ariosto testimonia nella satira. E anche quando, nell’Ottocento, il punto di vista del cartografo iniziò a diventare sistematicamente zenitale, come nella cartografia militare, incombendo statico a novanta gradi, non venne mai meno la denuncia, cioè l’esplicitazione, del discorso ovvero dello sguardo da cui esso dipendeva, che lo giustificava e che noi ancora intendiamo.
Ma dove siamo quando siamo di fronte a un’immagine di Google Maps o a quelle, ancora più mimetiche perché in apparenza fotografiche, di Google Earth? Impossibile a dirsi, perché non è più possibile risalire dall’immagine in questione, astrattamente e oggettivamente zenitale, all’intento visivo o discorsivo che l’ha prodotta. A meno di non pensare che siamo in groppa all’ippogrifo. Quel che però allora si stende sotto di noi non è il mondo ma, con le parole di Ludovico Ariosto, una semplice «stanza avara».