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L’abbraccio che genera poesia

Brillano dei versi nella memoria, improvvisi, mentre guardo un alto muro coperto di vite americana, che vedo dalla mia finestra incombere sul piccolo, chiuso giardino, brillante di colori autunnali: «Avevano l’altezza che ha l’arbusto / del mirto nero e stretto contro il muro, / camminavano insieme».

So da dove vengono: da una poesia intitolata Nenia, nel Canavese che avevo amato tanti anni fa, il racconto elegiaco di una partenza definitiva, ma anche della sopravvivenza di quelle tracce di affetti che resistono tenacemente alla morte, fragili ma resistenti sinopie di vite trascorse, come affreschi scomparsi di cui rimane soltanto un’esile trama. Ma a chi appartiene questa voce chiara e ben modulata, sebbene appartata e gentilmente ritrosa? Canavese, dunque Piemonte, ma chi? E finalmente, come riemergendo da un lago oscuro, ecco il nome: è Tino Richelmy (1900-1991). La sua Nenia ha il ritmo di una ballata antica in teneri endecasillabi, ultimo esito di quella purissima fons amoris che scorre e brilla nella lirica italiana dal Duecento a oggi, ogni tanto inabissandosi in misteriose voragini carsiche, ma sempre poi riemergendo limpida, forte, trasparente nel suo linguaggio cristallino. «Deh Violetta che in ombra d’Amore / negli occhi miei sì subita apparisti», canta il giovane Dante, e gli fanno eco lungo i secoli tante altre voci, dalla Ballatetta tristissima e gentile del suo amico Guido Cavalcanti alle Chiare, fresche et dolci acque di Petrarca innamorato, agli struggenti madrigali di Tasso («Qual rugiada o qual pianto / quai lagrime eran quelle / che sparger vidi dal notturno manto / e dal candido volto delle stelle? // Fur segni forse della tua partita / vita della mia vita?»).

Amore e morte sempre s’intrecciano nella poesia, ma in questa Nenia non c’è violenza di distacco né le tenebrose correnti della passione; qui è signore il tempo, quello mortale e quello dell’eternità: «Più meraviglia morte che l’amore», dice infatti il dolente verso conclusivo. Questi teneri amanti erano due che «camminavano insieme, egli robusto / il corpo, il volto soleggiato e duro, / ella infiammata e ondata da uno scialle / nel dolce portamento delle spalle». Ma ora – continua la sommessa cantilena, come una ninnananna – «non li puoi trovare, / nemmeno discendendo fino al mare». Perché «non c’è più fiato in loro, non c’è bocca. Erano lì dove ora il mirto ha fiore»: la concretezza carnale della bocca scompare nel “fiato”, il respiro che non c’è più. Non c’è più movimento, né calore. Ecco la morte. Ecco la misteriosa, vittoriosa “meraviglia” della morte.

di Antonia Arslan​