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Leone, Attila e la Chiesa pacificatrice

Antonio Paolucci

L’Attila di Giuseppe Verdi che ha trionfato alla Prima della Scala di Milano, il 7 dicembre 2018, ha il suo precedente iconografico nell’affresco che Raffaello realizzò fra il 1513 e il 1514 nella Stanza detta di Eliodoro dei Palazzi Apostolici, oggi percorso dei Musei Vaticani.
L’episodio raccontato da Raffaello e dalla sua squadra è molto antico e mescola la storia con la leggenda. Nell’anno 452 Attila invade l’Italia e, dopo aver messo a sacco Aquileia, punta su Roma. Papa Leone Magno va a incontrarlo sul Mincio, nei pressi di Mantova, e lo persuade a tornare indietro, salvando così l’Urbe dalla distruzione. La tradizione leggendaria dice che Attila e i suoi generali si convinsero a tornare indietro non tanto e non solo per le parole del papa, ma perché videro materializzarsi nel cielo le figure armate dei santi apostoli Pietro e Paolo, pronti a difendere Roma.
Per il papa committente, il grande Giulio II della Rovere, l’affresco doveva avere il valore di un manifesto politico (la ferma opposizione della Santa Sede alla presenza straniera in Italia) ma anche un significato di ex voto per grazia ricevuta. Infatti nel 1512 i francesi invasori avevano deciso di lasciare la Penisola.
Nel progetto di Raffaello, Giulio II doveva essere, nei panni di Leone Magno, il protagonista della scena. Ma il 21 febbraio 1513 papa Giulio muore, e gli succede sul trono di Pietro il cardinale Giovanni dei Medici, col nome di Leone X. Sarà quest’ultimo quindi ad assumere, nella evocazione artistica di Raffaello, il volto del pontefice che fermò Attila.
Fin qui la storia. Ed ecco l’interpretazione che dell’episodio leggendario ha dato Raffaello. A sinistra ha rappresentato la corte papale, solenne, maestosa, che trasmette un senso di tranquillità, di pace, di sicurezza e anche di soggezione. A destra ci sono gli Unni, e in questa parte dell’affresco dominano la ferinità, il disordine, la “naiveté” dei barbari. I loro cavalli sono guizzanti e feroci come leopardi: l’obiettivo degli Unni è la violenza fine a se stessa (e infatti brucia di incendi Monte Mario sullo sfondo). Il loro stesso assembramento di fronte al papa ha qualcosa di emotivo, di irrazionale, di psicologicamente instabile: guardate il re Attila, sconvolto di fronte alla mirifica visione dei due apostoli armati, guardate il suo cavallo, che è nero come la notte, digrigna i denti e ha gli occhi rosso fuoco. Non è un cavallo, ma è il Diavolo in persona che porta in groppa il “flagello di Dio”.
Sullo sfondo c’è un paesaggio di Roma (gli acquedotti, il Colosseo) fra i più intensi che mai siano stati dipinti. E ci sono, alti nel cielo, i protoapostoli Pietro e Paolo. La loro sola apparizione terrorizza gli Unni e ingorga di cavalli irrequieti e di uomini spaventati e agitati la corte di Attila. Mentre la scena con il corteggio papale è una incursione nella nomenclatura pontificia degli anni 1513-14, un resoconto di cronaca aulica. C’è il papa che ha il volto di Leone X, ci sono due cardinali al suo seguito. Il chierico con la croce astile è il cerimoniere pontificio Paris de Grassis. È Andrea da Toledo, “serviens armorum”, l’uomo di età che, con aria grave e assorta, vediamo presentarsi frontalmente su un cavallo bianco. C’è anche lo stalliere abruzzese Giovanni Lazzaro de Magistris detto Serapica, molto caro al papa e perciò assai considerato in Curia. Sta portando al passo, trattenendola per il morso, una mula bianca, la splendida cavalcatura di Leone X.
Come ai tempi dell’antico Leone, anche con il nuovo la Chiesa saprà essere maestra di ordine, di pace, di civiltà, di cultura. Questo è il messaggio implicito nell’affresco, essendo le sembianze di Leone Magno quelle di Leone X Medici, e l’episodio miracoloso di mille anni prima riproponibile nella Roma e nell’Italia del 1513-14. Messaggio ottimistico, bene augurante e sicuramente gradito a papa Medici che dava inizio, in quegli anni, al suo aureo pontificato.