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Le due gemelline, in un sogno l’infanzia ritrovata

di Antonia Arslan

Uno strano sogno mi ha accompagnato, l’altra notte, riprendendo nonostante un paio di risvegli. Era un sogno pieno di calore affettuoso, e di colori affettuosi. Ed erano quelli – li riconobbi subito – delle due gemelline, Celia e Susanna, che furono le mie amichette del cuore quando avevo fra gli otto e i nove anni: la penultima classe delle elementari dalle suore di don Bosco. Molto simili – ma non uguali, io le distinguevo senza fatica –, con le treccine ai lati della testa, due per parte, coi nastri a chiuderle di colore diverso: gialli per Celia, verdi per Susanna.
Come avevo fatto a dimenticarle? Appena il sogno virò su di loro, le riconobbi e mi si strinse il cuore di un’irrefrenabile nostalgia, di un ricordo così immediato, così presente che mi pareva di toccarle; e insieme a loro mi apparvero vivi nella memoria l’aula e i banchi (poveri, vecchi banchi di legno di allora, tormentati da mille mani infantili, con tracce di mille calamai rovesciati...) e il viso patito e assente di suor Fedelina, la maestra di quarta. Suor Fedelina parlava con voce flebile e luttuosa, ci faceva sentire in colpa per ogni parola a voce troppo alta, per ogni movimento vivace: aveva sempre male alla testa, oppure da qualche altra parte cui accennava vagamente, beveva a piccoli sorsi acqua tiepida, ci guardava con occhi malinconici, e non ci sgridava mai, eppure ci metteva a disagio, tutte quante, tranne Celia e Susanna che dal primo banco ogni tanto le rispondevano nel loro vigoroso dialetto natìo di chioggia.
Io le amavo molto, per la loro bruschezza che non era mai cattiveria, e per il loro odore di buono, di soffice: incarnavano per me, nei loro visetti paffuti, nelle braccine rotonde, nelle mobilissime mani sempre intente a qualcosa, l’idea stessa di una raddoppiata tenerezza, la gioia inconsapevole di specchiarsi l’una nell’altra. Il mio bisogno di stare vicina a loro veniva dal mio desiderio di entrare nel loro abbraccio ed essere così circondata e protetta dal loro “calore buono”, e difesa da quella misteriosa sensazione negativa che proiettava su di me la maestra suor Fedelina. Fu nel mese di maggio della quarta elementare che tutto precipitò: e il sogno dell’altra notte mi riportò intatto un fortissimo dolore dimenticato. Venne una mattina suor Giovanna, la direttrice, e ci disse che suor Fedelina non l’avremmo più vista, perché era molto ammalata. Non nascondo che ci sentimmo liberate e subito allegre: e nei giorni successivi mi pareva che le gemelle mi avessero accettato come nuova sorella. Ma poco dopo, verso la fine del mese, un giorno Celia non venne più a scuola; e nel pomeriggio, tornata a casa, trovai nella stanza dello stiro sua madre che piangeva vicino alla mia, che le teneva le mani. Celia moriva di leucemia, e non c’era niente da fare. Si poteva solo sperare che l’altra gemella sopravvivesse. In classe Susanna, da sola, non aveva più sorrisi gioiosi né scherzi. Le mani paffute giacevano immobili sul grembiule, e i nastri delle trecce divennero neri. Mi fissava, e il suo visetto pallido sembrava non riconoscermi, gli occhi guardavano altrove, cercavano l’altra metà del loro cerchio incantato. Poco dopo se ne andò anche lei. Ma nel mio sogno sono tornate, e mi hanno riempito di calore affettuoso, e io ho sentito il loro profumo di pane, accarezzato le loro guance paffute.