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Le dosi della giusta ricetta

​Pietro il Venerabile, abate di Cluny, dove la tavola era famosa per abbondanza e delicatezza, rimproverava così Bernardo di Chiaravalle e i suoi cistercensi rigorosamente vegetariani: «Voi condite i vostri legumi con un filo d’olio e tanta superbia». Eppure l’ascetico Bernardo era capace a sua volta di fare l’elogio del cibo, e non solo di quello di magro: nelle sue Sententiae indugia descrivendo la cottura delle uova (bollite nell’acqua o fritte nell’olio, nel burro, nel lardo). Quanto ai periodi di astinenza, come Avvento e Quaresima, i monasteri erano di solito dotati di peschiere nelle quali venivano nutriti anche pesci sopraffini, come il luccio: che, predatore, richiede vivai esclusivi, mentre in altri possono convivere specie più miti.
Nei monasteri e poi nei conventi degli ordini mendicanti, oltre ai pesci, ai coniglie e ai volatili da cortile (tenuti più per le uova che per la carne), si curavano con grande perizia anche giardini, orti e frutteti: venivano consumati freschi la frutta, gli ortaggi, i legumi, oppure sapientemente conservati. Molti metodi di conservazione di cibi hanno origini monastiche. Non si trattava solo di prepararsi alle lunghe stagioni fredde o di affrontare le possibili carestie, a vantaggio non solo dei religiosi ma anche della popolazione; si trattava anche di approntare cibi e bevande che avessero anche valore salutare. La gastronomia confinava (e confina) con la medicina. L’arte del mangiare era anche quella di mantenersi a dieta: ci si alimentava non solo per vivere ma anche per guarire. La parola “ricetta”, usata in cucina non meno che in farmacia (originariamente un elenco di ingredienti naturali), è sintomatica.


Il cibo è il soggetto privilegiato nel quale l’“alto-psichico-spirituale” della preghiera, dello studio e in generale dell’opus Dei si confronta problematicamente con il “basso-materiale-corporeo” dell’alimentazione nonché dell’eliminazione dei rifiuti. Chiesa monastica e chiostro con sala capitolare appartengono al primo blocco del complesso; refettorio, dormitorio, farmacia e infermeria al secondo, in stretta comunicazione col primo in quanto essi stessi, in qualche misura, luoghi di preghiera e di meditazione; cucine, latrine, orti, frutteti, cimitero, ambienti di lavoro, come le fucine, al terzo, in necessario contatto col precedente e in una rigorosa articolazione dall’alto al basso, dallo spirituale al materiale. E i peccati di gola? Si potevano commettere, come gli altri, negli stessi luoghi deputati alla preghiera e alla santità. La virtù, del resto, non ha valore senza la prova della tentazione. Non a caso nei monasteri medievali si aggira spesso il diavolo.

di Franco Cardini