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La summa teologica di Lorenzetti

di Antonio Paolucci​

Chi, l’autunno e l’inverno scorsi, ha visto in Santa Maria della Scala la grande mostra che Siena ha dedicato ad Ambrogio Lorenzetti (l’autore degli affreschi del Buono e del Cattivo Governo in Palazzo Pubblico) non potrà dimenticare la Maestà di Massa Marittima, mastodonte gotico, fulgido di oro e di paradisiaci colori che splendeva come un sole nel cuore di quella esposizione memorabile, curata da Alessandro Bagnoli, Roberto Bartalini e Max Seidel.
In questa estate 2018 il turista colto potrà rivedere la Maestà, tornata a casa sua, nel Complesso museale di San Pietro all’Orto di Massa Marittima, insieme ad altri capolavori del maestro senese provenienti dal territorio maremmano. Tutte le potestà locali (dal Comune alla Curia vescovile di Grosseto, dalla Soprintendenza all’Università di Siena, al Parco nazionale delle Colline Metallifere) si sono alleate per una iniziativa che renderà visibile un segmento tanto prezioso quanto pochissimo noto della nostra storia artistica più grande.
Ma ora fermiamoci di fronte alla Maestà di Ambrogio Lorenzetti, il pittore speculativo, “filosofo”, di cui parlano i Commentari del Ghiberti e le Vite di Giorgio Vasari. A Massa Marittima, circa l’anno 1335, ha prodotto per gli agostiniani il suo capolavoro di riflessione intellettuale. Perché la Maestà, questa tavola di 1,47x2,06 metri, purtroppo diminuita dei pinnacoli e della predella, è una vera e propria sciarada teologico-scritturale. Come hanno dimostrato Max Seidel e Serena Calamai nella monumentale scheda che figura nel catalogo della mostra senese, parlare della Maestà di Massa Marittima è come affrontare il XXXIV del Paradiso o la Summa di Tommaso l’Aquinate. Significa entrare in una foresta di simboli, in un labirinto di significati spesso non facili da decodificare.
Cominciamo dalla protagonista principale della scena sacra: la Madonna in trono, o “in maestà”, come si diceva a Siena. I riferimenti in certo senso obbligati di Ambrogio Lorenzetti sono con le celebri Maestà di Duccio e di Simone Martini. Perché per i senesi del XIV secolo la Madonna in maestà non era solo una immagine religiosa, era un emblema politico, essendo la Vergine Maria regina di Siena e di Massa Marittima, in quegli anni entrata nell’orbita del dominio senese. Attenzione però, perché la Madonna alla quale gli angeli offrono candidi gigli e rosse rose (così Giotto nella Maestà di Ognissanti, oggi agli Uffizi, come voleva una pia leggenda secondo la quale il giorno della nascita di nostro Signore tutto il mondo fiorì di rose e di gigli) non dimentica di essere madre amorosa, senza tuttavia declinare per nulla dal suo ruolo maestoso di sovrana del Cielo. Stringe a sé il suo Bambino e lo bacia. È il bacio fra Cristo e Maria-Chiesa ed è, allo stesso tempo, un ricordo di tenere iconografie bizantine sul tipo della “glicophilousa”.
Ci sono profeti e patriarchi nella parte alta del dipinto. Sono quelli che, dagli abissi dei secoli, dalle profondità della storia, hanno prefigurato l’avvento di Cristo Salvatore. E ci sono, ai lati del trono della Vergine, i santi: san Cerbone, patrono della città, naturalmente Agostino, titolare dell’ordine monastico che officiava la chiesa, ma anche Bernardo, il teologo della Vergine Maria, quello della preghiera del XXXIII del Paradiso, poi  Francesco, Caterina, simbolo di dottrina e di sapienza, Basilio Magno l’Eremita, Giovanni l’Evangelista. Ma l’aspetto più singolare della composizione sacra è rappresentato dalle tre figure femminili sedute alla base del trono della Vergine. Sono le rappresentazioni allegoriche delle tre virtù teologali. Sono loro a presidiare il trono della Madonna e a significarne il ruolo. Al centro, in posizione preminente, come voleva san Paolo, c’è la Carità. La Carità alza lo sguardo verso l’alto, verso l’immagine (oggi purtroppo perduta) che, sopra il trono della Vergine, raffigurava Cristo.
È significativa la sterzata semantica che ha subito la figura della Vergine. Essa non è più o, almeno, non è soltanto, la nostra Signora in maestà, la Regina del Cielo (simbolo politico di Siena, la potenza in quel momento dominante), ma è diventata Madre di Misericordia. Il suo attributo dominante è la carità.Sulla sinistra, vestita di verde, è la figura allegorica della Speranza che regge fra le mani un’alta torre: «Tu es, domine, spes mea, turris fortissima nomen Domini» (Tu sei, o Signore, la mia speranza, una torre fortissima è il nome del Signore) aveva detto san Bonaventura, il teologo francescano, e quella idea della speranza intesa come torre ben munita e inespugnabile diventa la metafora figurativa rappresentata da Ambrogio Lorenzetti.
La più affascinante e la più intrigante fra le virtù teologali messe in figura da Ambrogio è la terza, la Fede che, vestita di bianco, sta alla destra di chi guarda. Tiene in mano uno specchio che riflette una triplice immagine di Cristo, simbolo della Santissima Trinità. È lo “speculum fidei” e subito viene in mente san Paolo nella prima ai Corinzi, là dove scrive: «Videmus enim nunc per speculum in aenigmate, tunc autem facie ad faciem» (Ora vediamo come attraverso uno specchio sotto forma di enigma, ma allora vedremo faccia a faccia).
È interessante notare (è l’ultima e più sottile speculazione intellettuale offertaci da Ambrogio) come la Fede non guardi direttamente nello specchio, ma lo tenga leggermente inclinato per farlo vedere ai fedeli: come a dire che, nello “speculum fidei” tutti possono, anzi devono, guardare.
“Ambrogio Lorenzetti in Maremma. Capolavori dei territori di Grosseto e Siena”. Massa Marittima (Gr), Complesso museale di San Pietro all’Orto. Fino al 16 settembre. Info:  0566901954, museidimaremma.it.