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La poesia nel santuario di Kahn

​La chiesa unitariana di Rochester, costruita da Louis I. Kahn fra il 1959 e il 1967, fin dalla sua iniziale progettazione si è configurata come un importante laboratorio di ricerca per l’architettura. La complessità del tema di uno spazio rituale come quello del santuario, messo in stretto rapporto con gli spazi di formazione delle aule della scuola, ha condotto l’architetto a una riflessione teorica sull’architettura in generale, sui significati e gli interrogativi impliciti nell’opera costruita.
È certo che, al di là di essere una struttura concreta, realizzata per rispondere a richieste tecnico-funzionali, l’opera veicola altri valori percepiti dai fruitori.
Nel continuo e lento processo di ricerca dei valori dell’architettura – che Kahn ha rincorso nella convinzione che l’opera costruita possa configurarsi anche come opera d’arte – questa chiesa ha richiesto continui ridimensionamenti del progetto iniziale, offrendo all’architetto tempo e spazi per estendere le sue riflessioni teoriche anche oltre il caso specifico.
Sono questi gli anni in cui Kahn approfondisce alcune intuizioni che lo portano alla convinzione che l’opera di architettura possa trasformarsi in strumento di interpretazione delle “istituzioni umane”, intese come modelli di riferimento in grado di testimoniare le attese e le aspirazioni dell’uomo.
L’impianto planimetrico della chiesa è interpretato come un organismo (una cittadella concentrica) piuttosto che un singolo edificio. Le differenti parti (corridoi, servizi, aule e santuario) non vengono interpretate come spazi di relazione meramente funzionali; possiedono specifiche connotazioni formali che concorrono a costruire un insieme di parti compiute, un tessuto gerarchico organizzato su uno schema ad anelli concentrici con l’aula assembleare al centro della composizione. Le parti perimetrali sono composte dai servizi e dalle aule della scuola che divengono l’immagine del nuovo intervento rispetto al territorio. Il nucleo centrale della chiesa è visibile dall’esterno unicamente attraverso le quattro torri dei lucernari poste agli angoli dell’aula. La chiesa resta protetta, quasi si trattasse di un seme prezioso verso il quale tutto l’intorno converge.
Questa invenzione tipologica del tempio, come cuore racchiuso e nascosto dentro una realtà più ampia, implica una gerarchia di spazi in cui la sacralità è contenuta e protetta piuttosto che esibita. Questo impianto apre a registri espressivi con un linguaggio contemporaneo nuovo; a prospettive meno retoriche e più evocative dei valori immateriali. L’attenzione allo spazio del sacro richiede una capacità di sintesi, un ordine e una geometria fra le parti che richiamano riferimenti archetipici con significati di storia e memoria. Sono i valori universali (che restano gli obiettivi di ogni opera d’arte) a prevalere rispetto a quelli del reale; ritornano con forza riferimenti assopiti, che ora si presentano nella quotidianità. Il sacro diviene forza di idee primarie avvolto dal mistero di segni e tracce la cui potenza tocca il nostro immaginario.
Kahn, nell’enunciare il suo pensiero, parla del fascino insito nella “pre-forma”, insiste sull’idea del principio, dell’inizio di ogni azione come “forma-prima”, riconosce che in questa vi è più forza di quanta non ve ne sia in tutto ciò che da essa si sviluppa successivamente e ricorda come si debba assicurare al proprio lavoro l’energia che si sprigiona nella condizione di un “nuovo inizio”. Diviene necessario vegliare criticamente sull’inevitabile scarto che connota il processo del costruire rispetto all’idea iniziale. Dentro le preziose pieghe di queste intenzioni è possibile incrociare emozioni che offrono prospettive oltre il finito.
L’architetto utilizza la geometria come strumento in grado di controllare i confini fra le differenti parti e riconquistare un senso all’idea di limite. L’architettura è l’arte del separare e nel contempo di unire parti compiute. Per l’architetto la condizione spaziale di finito, e quindi di misura, è premessa per inventare nuovi equilibri grazie ai quali può verificarsi il miracolo del fatto poetico, che trasforma gli spazi in una dimensione incommensurabile.

di Mario Botta